scrittura

Vorrei il tempo (poesia)

Vorrei un terrazzo che non sia balcone

una casa in campagna magari in città

un bel vaso di fiori davanti al portone

e biglietti di amici attaccati qua e là.

Un piccolo grande perfetto giardino

che resti nell’ombra e nel sole lo stesso

Lontano dagli occhi di ogni vicino

nel quale potermi nascondere spesso.

Il tempo di crescere e vivere un cane

a cui dedicare ogni sentimento

Dividere tutto anche un pezzo di pane

trascorrere insieme ogni istante e momento.

Staccare la spina di video e sonoro

togliere luci, pulsanti ed antenna

Riavere il mio tempo buttato al lavoro

provare di nuovo ad usare la penna

scrittura

La Persiana

(Racconto 2°classificato al concorso “Nonno raccontami una storia 2009”)

“Tre, due, uno…” pensò l’edicolante e, infatti, puntuale come sempre, Michele spalancò le persiane al secondo piano facendole sbattere contro il muro in un forte schianto. Alcuni piccioni volarono via e l’edicolante alzò gli occhi al cielo, imprecando. Restare vedovo aveva sconvolto la vita di Michele che, convinto di andarsene per primo, aveva messo in mano a Giovanna ogni responsabilità adagiandosi nei suoi ottant’anni come un cane che smette di alzare la zampa e, stanco, la fa camminando. Quando c’era lei, Michele doveva soltanto vestirsi e mangiare, usare il telecomando e, di rado, accompagnarla alla sagra del paese. Rimasto solo, aveva scoperto supermercato, lavanderia, ufficio postale e tanti piccoli impegni di cui si era sempre infischiato prima, aveva comprato una sveglia e, in pochi mesi, programmato le giornate al minuto, finché la sveglia non servì più. Quasi sordo, non si accorgeva della violenza di alcuni gesti che compiva, ma la sua goffaggine esisteva solo se qualcuno gliela faceva notare. Suo figlio, che viveva a tre ore di macchina, gli aveva fatto visita solo per installare un dispositivo che impedisse al volume del televisore di superare una certa soglia: se i vicini non lo avessero chiamato, non sarebbe probabilmente mai tornato a trovarlo. Finestra, letto, colazione, vestiti. Nove meno un quarto al supermercato, lavanderia il martedì e il giovedì. Undici e mezza rientro a casa con sosta in edicola, acqua sul fuoco e cento grammi di pasta. Lunedì uovo, martedì carne, mercoledì formaggi, poi riso, pesce, verdure. Pisolino di mezzodì e giù al parco a leggere il giornale fino all’orario di cena. Infine a letto. Ogni settimana uguale. La domenica, da buon cristiano, era diversa. Al supermercato sostituiva il cimitero, all’edicola, invece, la Messa. Comprava poi mezzo pollo arrosto al mercato e dopo pranzo, vestito di tutto punto, si recava a passeggio sul lungomare. Molti anziani si occupano dei nipotini, delle bocce, delle carte. Se vedovi, alcuni riscoprono l’amore. Michele, che amici non aveva saputo mantenerne né trovarne, non ci pensava mai. Molte cose perdono di significato da anziani, l’ansia dell’attesa sparisce così come il desiderio di un oggetto nuovo o il senso del possesso. La pensione diviene enorme se non si ha qualcuno a cui fare regali e quanto accumulato diventa inutile e svanisce. Non riconosceva più la propria scuola, passandole davanti, perché non c’era nessuno a cui indicarla. Non serviva notare il cambiamento del quartiere, cosa si erano portate via le bombe e cosa il progresso, se quel pensiero moriva in lui. Pensava solo alla lista di impegni quotidiani, vi si aggrappava con forza, e ne faceva un obiettivo imprescindibile che lo guidava più di una religione, giorno dopo giorno. Un martedì mattina Michele, al solito, aveva sbattuto le persiane, fatta colazione e stava camminando verso il supermercato. Quel giorno però la strada oltre l’angolo era bloccata a traffico e pedoni, pare stessero passando una nuova rete di cavi dallo strano nome, e tutti i negozi di Corso Italia erano chiusi, supermercato e lavanderia compresi. Cosa fare allora? Esisteva forse un altro supermercato? Avrebbe potuto ritirare i vestiti nei giorni dispari? Non avendo niente da cucinare pensò al pollo arrosto del mercato e si diresse alla piazza. Con stupore scoprì che al posto del mercato c’era un parcheggio e, dopo aver chiesto ad un passante, ricordò che il mercato c’era solo la domenica. Le tempie cominciarono a premere e la vista a vacillare: troppi cambiamenti tutti insieme. Tornò a casa che erano appena le nove e un quarto ma, in un gesto meccanico, mise comunque la pentola sul fuoco. Accese il televisore e ci volle un po’ prima che capisse perché il telegiornale non c’era. Scolò la pasta ma, non trovando altro condimento, si accontentò di olio e parmigiano. Infilate due forchettate si arrese: non aveva fame. Sparecchiò quindi la tavola ed entrò nel letto, cercando di prender sonno, ma anche la pennichella era scombussolata e rimase a fissare il soffitto per oltre mezzora. Innervosito, si preparò per il parco, giornale (vecchio) sotto braccio e bastone. Sulla solita panchina lesse più lentamente che poté e dopo il cruciverba unì i puntini numerati ed annerì gli spazi col pallino. Il sole però era ancora alto ed il languore che sentiva non era quello della cena. Tornato a casa terminò il suo pasto ormai freddo, passò in rassegna le trasmissioni del primo pomeriggio e, privo d’interesse, tornò nuovamente a letto dove, a causa dello stress, dormì tutte le solite otto ore. Quando si fu alzato ed ebbe aperta la persiana però, qualcosa era diverso. I lampioni erano ancora accesi e l’alba la si poteva appena percepire da un vago chiarore fra due palazzi. Scaldò il latte e riprese la routine, attento a non sgarrare. Non appena fu fuori, il panico lo colse: il semaforo lampeggiava e la strada era vuota. Si affrettò claudicante verso il supermercato e camminò a fatica sui tavolacci provvisori del cantiere stradale ma anche stavolta sembrava che tutto fosse chiuso. Michele si avviò sudando verso tutti i luoghi a lui noti ma… niente lavanderia, niente mercato. Chiusi anche chiesa e cimitero. Solo il mare era al proprio posto e, naturalmente, la panchina nel parco, ma non aveva giornale né era vestito sufficientemente bene da passeggiare sul molo. I suoi problemi gli parvero così grandi che pianse un po’, tornando a casa. La speranza sembrò riaffiorare quando scoprì che l’edicola era aperta e il suo giornale disponibile. Tirò fuori i soldi e chiese all’edicolante perché tutto fosse chiuso. Quello lo guardò un po’ e dopo avergli riso in faccia esclamò. – Che rimbambito! Non sono neppure le sei, che ci fai a zonzo a quest’ora nonno? Vattene a casa –. Come un cane bastonato, Michele si avvicinò al portone, ma prima che potesse entrare l’edicolante aggiunse: – Se Dio vuole stamattina almeno non sentirò le tue persiane schiantarsi contro il muro! Sembra una fucilata ogni volta, vedi di piantarla vecchio! –. Seduto a tavola Michele aprì il giornale: “Aumentato ancora il numero degli anziani in Italia: troppi vecchi nel nostro paese”. Subito si sentì offeso, poi realizzò di potersi ancora escludere da quel “vecchi”. Nel ripostiglio aveva una cassetta degli attrezzi. Elaborò in un attimo più pensieri di quanti ne avesse avuti negli ultimi due anni e, come un genio del fai da te, tolse i gommini dalle zampe della tavola da stiro, li forò al centro con un chiodo e li appoggiò sul davanzale. “Che ne sapevo io che sbattono? Poteva dirmelo prima, quello! Ora gli faccio vedere io chi è vecchio!” si disse. Prese il martello e si sporse per installare quel rimedio artigianale sulla facciata, dove le persiane, sbattendo, avevano creato un profondo solco. Si sporse ancora e poi ancora un po’. “Tre, due, uno…” penso l’edicolante alle sette e venti, e poi “Già! Il vecchio è sveglio da un pezzo, niente persiane oggi!”

E invece lo schianto ci fu ugualmente, e ci fu pure una sirena. La chiesa riaprì e la lavanderia consegnò il vestito buono, quello della domenica, all’impresa funebre. Quel martedì per Michele fu proprio impossibile rispettare i suoi impegni.

scrittura, Viaggi

Thailandia, diario di viaggio

(Segue dal diario di viaggio in Laos pubblicato due giorni fa)

21 Giugno
Sono arrivato a Nong Khai da Vientiane in Laos, con l’autobus. Non ho portato la guida della Thailandia poiché pesa oltre un chilo ma a memoria raggiungo il centro e con immensa sorpresa trovo un albergo tutto in legno con le camere affacciate su un giardino meraviglioso, letti immensi e sia le pareti che i pavimenti sono in teak. Sembra un luogo bellissimo. Acquisto una notte per soli quattro euro, incredibile. La mia stanza è pulita in modo maniacale ed ho la mia veranda con sdraio, tavolino e fiori dappertutto. La Thailandia non si smentisce mai, il proprietario e’ estremamente servizievole, sul letto ci sono asciugamani disposti perfettamente, ho accesso libero al frigorifero con bibite ed acqua. Il lungofiume è nuovissimo, una passeggiata carica di aiuole curatissime, pavimenti in pietra bianchissima e una fila di locali e ristoranti tutti in legno con terrazze immense piene di gente e golosità locali. Non immaginavo un posto così piacevole. Per cena ordino un Tom Yam che a ragione ricordavo ottimo e piccantissimo. La serata in veranda sullasdraio mi fa sentire così bene che pur non facendo niente rimango seduto due ore a godere dell’atmosfera incantata.
22 Giugno
Finalmente una notte senza incubi. Finora ho sognato sempre di venir sbranato dai lupi o scene in cui mi ritrovavo nudo in pubblico. Nei miei sogni però sono sempre a scuola, alle superiori, notte dopo notte continuo a sognare scene di allora, compagni di allora, chissà che macchinoso meccanismo attiva la memoria di quel periodo in luoghi così remoti. Appena sveglio non ho dubbi: vado dal proprietario ed acquisto un’altra notte. Si sta così bene che è un peccato fuggire subito. Cerco una lavanderia e lascio una busta di vestiti che saranno pronti nel pomeriggio. Il caldo è a livelli africani ma fortunatamente c’è un bel venticello e lo sopporto bene. Vado alla stazione del treno per informarmi sul treno verso Bangkok ed ho un’amara sorpresa: c’è sciopero e tutte le corse sono soppresse. Che sia bloccato quassù? Il gentilissimo capostazione mi da il numero di telefono dicendomi di richiamare domani per sapere se sarà finito e il treno partirà e mi rinfranca dicendomi che è comunque possibile andare in autobus. Speriamo bene. Il pomeriggio lo passo al mercato coperto: un corridoio di negozi e bancarelle lungo mezzo chilometro con varie diramazioni. Ci sono anche tante cose di qualità ottima e, mancando il cibo, non ci sono strani odori come è tipico nei mercati indocinesi. Verso sera mi faccio una doccia e mi preparo per cena: non ho mangiato da ieri ma oggi proprio non ho appetito, forse colpa del caldo. Stavolta mangio un fantastico Curry verde di manzo e poi, mentre sto per rientrare, mi sorprende un temporale violentissimo. Rimango sul lungofiume su una panchina sotto ad una tettoia e me lo godo tutto: tuoni e lampi si susseguono senza sosta e l’acqua che cade fa un rumore assordante. In mezz’ora si calma un po’, torno in camera, poso tutto e mi metto in veranda a leggere e scrivere mentre la pioggia riprende forza per dieci minuti e poi smette.
23 Giugno
La giornata la passo vagando senza meta per Nong Khai. Per le bancarelle la gente mi riconosce e mi sorride oppure viene espressamente a salutare. In effetti sono molto riconoscibile, unico straniero da tre giorni a spasso. Vado a comprare il biglietto dell’autobus, del treno ho perso ogni speranza e lo sciopero continua, mi dispiace soprattutto non potermi fermare ad Ayutthaya in treno, come avevo programmato. Devo lasciare la stanza a mezzogiorno ma il titolare mi fa tenere lo zaino nel ripostiglio. Alle sette vado alla stazione degli autobus e non credo ai miei occhi quando salgo a bordo. Al prezzo di sei euro per un viaggio di nove ore mi accomodo su un sedile enorme, completamente reclinabile, e mi vengono forniti nell’ordine: asciugamani, coperta, acqua fresca, patatine, wafer e tè verde. Mi domando come facciano a rientrare nelle spese. Il viaggio è piacevolissimo e l’autista estremamente prudente. Ci fermiamo in quattro grandi cittadine e riesco anche a dormire un po’. A bordo viene trasmesso un film e il tempo passa piuttosto velocemente, non capisco però che senso abbia avere i sedili in velluto pesante in un paese tropicale, sono costretto a dormire sopra all’asciugamano per non sudare.
24 Giugno
Arrivo a Bangkok alle quattro di mattina, l’autobus mi lascia in periferia ed occorre quasi un’ora di bus urbano per arrivare in centro. E’ ancora davvero presto e zaino in spalla mi metto in cerca di una sistemazione. Comincio dalla Bo Bae Tower, dove alloggiai nel 2007 e mi emoziono ripercorrendo certi luoghi noti che tanto avevo amato. Dalle sei alle otto vado di porta in porta alla ricerca di una sistemazione. Ricordavo maleodorante e inquinata, ma non così tanto. Con lo zaino in spalla e nonostante l’ora già mi sento svenire: ho visto oltre venti guesthouses e pensioni ma sono piene, o sporche o troppo care. Inoltre l’assillo dei guidatori di tuk-tuk che non mi danno tregua mi ha messo di così malumore che devo rifugiarmi in un internet point. Davanti a me una cartina della Thailandia. Un pensiero dopo l’altro e in due o tre click faccio il programma più veloce della storia: un’ora dopo sono sul treno che mi porta a Hua Hin, al mare, località scelta praticamente a caso. Dove la terra indocinese sgocciola sull’Oceania e l’istmo di Kra trattiene quel lembo Malaysia per un pelo, diviso tra Thailandia e Myanmar, c’è la località balneare di Hua Hin dove vanno in vacanza i Thailandesi piu’ abbienti. La cittadina è una sorpresa come è una sorpresa la guesthouse dove mi sistemo: sospesa su una struttura a palafitta proprio sulla spiaggia! Praticamente esco dalla stanza scendo le scale e sono in acqua. Faccio subito un bagno a mare e l’acqua è caldissima, come un bagno turco. Alle spalle della cittadina, molto vivace e piena di ristoranti, massaggi e infrastrutture, nell’entroterra, c’è un parco nazionale dove spero di poter andare. Pago tre notti. Dopo jungla, villaggi, navigazione, ore nella polvere e tanti chilometri a piedi, questi tre giorni li passerò da Re spendendo un bel niente! Nel pomeriggio mi metto in esplorazione della città. Scopro che il Re risiede qui per la maggior parte dell’anno, infatti tutto in torno davanti alla costa ci sono navi militari di guardia. Oltre al centro città fatto di locali, vicoli e negozi, mi ritrovo in una zona moderna dai tecnologici centri commerciali e tante fra le catene alberghiere note in tutto il mondo e purtroppo anche tutti i fast food americani. E’ un vero peccato che l’identità tipica di questi luoghi si vada piano piano cancellando per far posto ad usi e costumi occidentali.
25 Giugno
Dopo colazione, noleggio uno scooter e parto in esplorazione, seguendo la costa verso sud. Raggiungo il promontorio di Takiap, con un tempio sulla vetta ed un panorama incantevole. Subito vengo attorniato da scimmie e quando ridiscendo la scalinata anche lo scooter è invaso da scimmie che non vogliono saperne di andarsene. Mi scelgo una spiaggia deserta e dopo un paio di bagni a mare mi stendo due ore al sole, poi devo smettere perché non lo sopporto. Decido quindi di partire alla volta del Parco Nazionale al confine con il Myanmar. Sono 73 km di strada bellissima, con asfalto perfetto. Dopo i primi venti chilometri di villaggi e piccoli centri i restanti cinquanta sono un saliscendi fra colline disabitate, mucche che invadono la strada e nessuno oltre me. Tutto intorno vette frastagliate che sembrano conchiglie conficcate nel terreno. Faccio tappa all’ospedale degli elefanti: ci sono elefanti partorienti, convalescenti e anche allestiti per gite nella foresta. Altri fanno gli equilibristi con cerchi attorno alla proboscide e ballano a tempo di musica. Riparto. La strada prende a salire e dopo diversi tornanti si infila in un altopiano pieno di laghetti e fitta foresta. Ad un tratto un cartello che sembra proprio dire “Attenzione alle Farfalle”. Resto un po’ perplesso ma poco dopo scopro il motivo. Nuvole di farfalle nere e blu compaiono all’improvviso in mezzo alla strada, sbattendo dappertutto sullo scooter, sul casco e anche sulla mia faccia, per poco non mi fanno cadere. E così via a intere manciate quasi da offuscare la vista. Finalmente ci sono: un cartello con l’effige del Re Bhumibol da il benvenuto nel Parco, passo un check-point della forestale e poi via, ancora foresta per altri dieci minuti. Ed ecco le cascate di Pa-La-U. Mi incammino sulla riva del torrente e una guardia forestale guardando le mie ciabatte infradito mi guarda come a dire ‘dove vai con quelle’. In effetti si scivola parecchio, perciò le tolgo e le mollo da una parte. La jungla è fatta per essere toccata, penso. Le cascate sono su vari livelli, ai due inferiori bassi si accede tramite comodi ponticelli di legno e gradini di pietra, ma poi il sentiero si addentra nella vegetazione lasciando il torrente per un bel pezzo. Cammino scalzo nella fanghiglia, sulle foglie, su radici nodose umide ed è come stare su un tappeto, mi piace veramente un bel po’ questa sensazione di contatto con la natura. Raggiungo il terzo livello e proseguo nell’acqua per altri due fino a trovare una grossa cascata con una grande laguna in cui si getta l’acqua ed una seconda laguna di acqua più ferma e trasparente piena di pesci . Poso tutto sulla riva e mi metto in piedi nell’acqua. Poco dopo mi accorgo di un grosso ragno nero sulla mia spalla e con un getto meccanico lo butto giù. La punizione è tremenda: in un attimo un turbine di pesci si getta sul povero ragno e ne perdo le tracce. Entro nell’acqua fredda lentamente e quando sono immerso i pesci non ci pensano su due volte e si fanno avanti a mordicchiarmi le dita dei piedi e le gambe. Fortunatamente l’acqua è trasparente e vedo tutto quello che accade sotto di me altrimenti me la sarei già data a gambe! Passo così un paio d’ore i beatitudine, ci sono piante che ho visto soltanto al negozio del mio amico Gianluca. Alcune con dei grossi sacchi appesi come contenitori delle dimensioni di una brocca da un litro, e fiori di ogni tipo. Si sente qualche stridulo verso nella boscaglia e ogni tanto si vede qualche scimmia sui rami piu’ alti. Una grossa farfalla arancione si posa sulla mia testa per un bel po’ e rimango immobile cercando di allungare la mano verso lo zaino per fotografarla ma quella invece riparte e si mette proprio sul mio portafogli. Comincia a piovere e ripercorro tutto il tratto nel bosco sempre scalzo e sempre da solo. La pioggia rinforza così nel viaggio di ritorno rimango in costume fino alle porte della città, poi smesso di piovere ed asciutto mi rivesto e vado a restituire lo scooter. Per cena decido di mettere i pantaloni lunghi e di tornare allo stesso piccolissimo ristorante in cui ho cenato ieri. Le zanzare mi hanno sbranato le gambe ma la cena era favolosa. E soprattutto, decido di mettere finalmente un paio di scarpe che non indosso da 14 giorni ormai. I piedi sono neri per il sole di sopra, e neri per le camminate a piedi di sotto. Mi stavo davvero abituando a stare scalzo, magari poter stare scalzi sempre! A cena ordino un Phad Thai che mi viene servito dentro ad un sacchetto fatto con una o melette, dentro ci sono i famosissimi tagliolini con germogli di soia e gamberoni. La solita passeggiata serale e poi a letto. Sotto di me si sente il mare, è quasi come dormire in barca.
26 Giugno
Nella notte mi sono svegliato due volte e sono uscito in terrazza, ma per il resto se conteggio le ore di sonno sono arrivato ben a dieci ore! Tantissime per me. Appena sveglio mi preparo lo zaino e vado in spiaggia, sarà una lunga giornata oziosa, lunga e lenta perché al mare so già che resisterò poco, di mercati e negozi ne ho abbastanza e di escursioni non ne ho in programma. Rimango a mollo un sacco di tempo e mentre sto per andarmene conosco Tlee, un ragazzo di New York in vacanza anche lui da solo. Parliamo così tanto su e giù per la spiaggia che quando ci salutiamo sono ormai le due. In doccia mi accorgo del livello di ustione che hosulle spalle, non riesco neppure ad insaponarmi. Con Tlee ho fissato alle sei per cenare insieme. Ci ritroviamo ed andiamo fino al centro commerciale insieme, ceniamo con pochissimo e poi lui insiste per andare al cinema a vedere Transformers. Prima del film, proiettato in Thai e quindi incomprensibile, tutti in piedi davanti ad un firmato sul Re che viene dipinto come un semidio. Ci salutiamo attorno a mezzanotte, dopo aver fatto tappa in un altro locale. Finalmente una serata con qualcuno, non che la solitudine mi dispiaccia ma comincia veramente a pesarmi stare seduto ogni sera da solo in ristoranti pieni di gente. Tlee poi, è un ragazzo estremamente piacevole, è in Thailandia da due mesi ed ha lavorato alla costruzione di alcune scuole di inglese e fatto tanto volontariato. Davvero un ragazzo saggio e intelligente. Che rabbia non essersi fatti una foto insieme!
27 Giugno
L’ultimo giorno è arrivato. Preparo lo zaino e mentre lascio la mia stanza incontro nuovamente Tlee. Secondo me lo ha fatto apposta. Vorrebbe che andassi in spiaggia con lui ma gli spiego che sono ustionato e che fra due ore ho il treno per Bangkok, se lo perdo arriverò troppo tardi per il mio volo. Ci salutiamo di nuovo e ci scambiamo le e-mail. Cammino lentamente attraverso il paese per far passare il tempo ma quando arrivo alla stazione ho speso solo mezz’ora. Mi siedo a leggere e dopo un po’, riecco Tlee di nuovo. Dice che era curioso di vedere la stazione e mi fa compagnia fino all’arrivo del treno. Saluto con grande dispiacere e parto. Il treno, di sola terza classe, è lentissimo e rumoroso, non ci sono neppure le porte e qualcuno salta dal treno durante il viaggio. Su e giù fra i vagoni passano i venditori ambulanti di pollo fritto, riso e bevande. Arrivo a Bangkok alle 19, speravo di avere un paio d’ore da spendere in città ma è in corso un temporale e prendo il primo bus per l’aeroporto. Ho sei ore di attesa prima del volo, ma non importa. Ogni attesa, ogni silenzio, ogni momento di non far niente semplicemente ascoltare o guardare in questo viaggio ha avuto importanza. Sono soddisfatto, appagato e per niente stanco ma ho ritrovato anche una nuova voglia di tornare, di vedere i miei e la mia casa e portarmi via tutto quello che questi luoghi mi hanno lasciato dentro. Nella cascata ho gettato una monetina, se il desiderio si avvererà….

Laos, scrittura, Viaggi

Laos, diario di viaggio

15 Giugno Volare continua a non piacermi e per tutto il volo da Roma a Bangkok non chiudo occhio. Dopo cinque ore di attesa in aeroporto, il volo per Luang Prabang è invece calmo e perfetto. All’arrivo mi viene rilasciato un visto di un mese, esco all’aperto e trentanove gradi mi arrivano di colpo, l’umidità segnalata da un piccolo barometro a lancetta è al novanta per cento. Una chiacchierata con un tizio in coda alla dogana mi fa guadagnare un passaggio in pick-up fino in centro , lui è australiano ed il suo inglese mi risulta più difficile del lao. Indosso ancora i jeans e vorrei poterli sfilare e gettare in un cassonetto. Ho sonno, bisogno del bagno e sono fradicio di sudore. Cambio cento euro per un rotolo gigante da oltre un milione di kip dopodichè raggiungo la Vanvisa Guesthouse, che ho scelto da tempo grazie alla guida. Tolte le scarpe, seguo una ragazzina fra tappeti e bambini urlanti, mi mostra la loro camera migliore e pago per tre notti. Il pavimento della stanza è in legno, c’è un lettone matrimoniale, un bagno spartano ma pulito e ben tre finestre con zanzariere; invece del comodino una scultura antropomorfa di legno alta quasi quanto me mi fissa ovunque mi sposti. Fatta la doccia mi butto sul letto ma guardando le finestre mi accorgo che qualcosa non torna, mi alzo per toccarle e solo allora capisco che non ci sono i vetri, ma solo le zanzariere. Fuori vedo un barbecue enorme e l’odore che mi entra in camera non mi dispiace, decido comunque di rimettere tutto in valigia prima di trasformarmi in un pasto per tigri ambulante. Provo a dormire ma non riesco. Esco. Dalla collinetta adiacente un suono di tamburo e sonagli attira la mia attenzione, salgo la scalinata e mi siedo a guardare un gruppo di monaci bambini che si affaccendano attorno al tempio, alcuni di loro percuotono un tamburo appeso orizzontalmente dentro un tabernacolo. Sorridono e salutano provando il loro inglese. Poco il suono del gong viene rimpiazzato da quello dei tuoni. Nel giro di dieci minuti il cielo si fa nero e sembra notte, saluto a mani giunte ‘sabaidee’ e mi incammino giù per la scalinata. Salvezza: un internet point in cui rifugiarmi mentre il monsone scarica un fiume d’acqua in questo posto incantevole. Trascorsa mezz’ora mi faccio coraggio ed esco che ancora diluvia e quando arrivo alla guesthouse mi toglo le scarpe ed entro gocciolante. I bambini ridono. Cerco la signora e chiedo se posso cenare con loro. La signora mi propone il laap, il piatto tipico laotiano. Adesso ho la certezza di essere il solo cliente. Mi porta in cucina e mi fa scegliere fra carne e pesce ma le rispondo che mangerò quello che avrebbe cucinato comunque e che non ho problemi. Mi sembra soddisfatta e mi dice che sarà pronti per le otto. Mancano ancora tre ore, sono rilassato come mai e questa casa ha un fascino esagerato: davanti alla mia stanza c’è un lungo tavolo da quattordici coperti dove mi siedo a scrivere il mio diario. Poco dopo la signora compare con un tè da lei stessa coltivato e preparato che trovo ottimo. Stavolta vado a letto davvero e crollo all’istante, mi sveglia la figlia della signora per la cena e mi siedo al tavolo con i due uomini di casa. Il laap è una sorta di misto di verdure con brodo, piuttosto amaro a dire il vero, che però mangio con entusiasmo anche se ogni tanto mi trovo a sputare delicatamente qualche ossa di animale non identificato. A centro tavolo c’è invece una frittura di pesciolini del Mekong pescate da uno dei due commensali che ho di fronte. A fine cena ci viene servito un ananas dal sapore mille volte più intenso di quelli che giungono da noi. Dopo cena vado al mercato notturno, ritrovo di tutti i turisti. Fra le bancarelle di prodotti artigianali incontro qualche altro falang (straniero) ma non molti a dire il vero. Ci sono stoffe di ogni genere, borse, maglie e oggetti in legno e vimini, carta di riso e seta. Mi tenta un copriletto fantastico ma mi frena il pensiero del poco spazio nello zaino e resisto all’acquisto. Il cielo è di nuovo stellato, faccio una passeggiata per alcune vie deserte ma alle dieci sono già a letto.

16 Giugno Mi sveglio alle otto e decido di seguire l’itinerario suggerito dalla guida Lonely Planet. Per prima cosa mi reco da Big Brother Mouse, un’associazione dove compro alcuni libri di scuola che verranno donati alle scuole dei villaggi del nord che non possono comprarne. Poi procedo fra case bianche e templi, le strade sono perfettamente pavimentate ed i marciapiedi in mattoni rossi. Il cielo e’ velato ma fa molto caldo. Mi ritrovo così al mercato dei generi alimentari, un mondo a parte davvero. Nessun turista oltre me che indosso una maglia senza scritte e pantaloni lunghi di lino, forse grazie ai capelli rasati e l’abbronzatura qualcuno neppure si accorge di me. Mi tradisco quando sgrano gli occhi davanti ad una bancarella nella zona carni che vende decine di grassi rospi in una ciotola e alcuni varani, un paio sopra il metro di lunghezza, con mani e piedi legati e che si guardano attorno in attesa di venir acquistati e cucinati. Una signora mi chiede se va bene il varano che sto accarezzando ma la figlia la rimbrotta subito dicendole che sono un falang. Mi riguardo dal fare foto e mi limito a rubare un paio di scatti da alcuni punti coperti o quando nessuno mi osserva. Sul lungofiume compro il biglietto dell’autobus per Sainyabouli, la mia prossima meta, verso cui partirò dopodomani. Raggiungo il tempio principale della città: il Wat Xieng Thong. Tolgo i sandali all’ingresso del giardino e le lascio lì, mi pare inutile fare un continuo leva e metti ad ogni edificio e quindi rimango scalzo per tutta la visita. La fortuna mi assiste e nel Sim principale è in corso una cerimonia: i monaci, che al mattino raccolgono le offerte in cibo, si apprestano a consumare il loro unico pasto della giornata davanti ad alcuni fedeli. Capisco subito che alcuni dei fedeli sono i genitori dei monaci bambini. Farsi monaci infatti e’ una tappa obbligata che aggiunge prestigio alla vita di ogni buddhista ed ognuno per un minimo di tre mesi si fa monaco nella propria vita. Finita la preghiera collettiva, comincia la sfilata dei vassoi di riso, verdure e involtini di foglie di banano mentre alcune signore lanciano petali di fiori tutto intorno. Fare foto è quasi un delitto ma quando la signora che ho di fianco mi incita mi faccio coraggio e immortalo qualche scena. Sempre scalzo mi aggiro fra i vari edifici attorno al giardino dove è custodito un carro funebre regale ornato da sette teste di serpente ed una piccola cappella all’interno della quale c’è un Buddha di ferro pesantissimo che si deve provare a sollevare per tre volte dopo aver espresso un desiderio: ci riuscirà soltanto chi merita che il desiderio venga esaudito. La visita al tempio mi occupa un paio d’ore ma avendo deciso che in questa vacanza non sarò mai schiavo del tempo, non ho l’orologio e quindi non so bene che ora possa essere. Dopo la visita al tempio la Lonely Planet mi porta verso un ristorante di nome Tamarind. Sembra un bel posto e ci sono diversi clienti ma proprio a fianco c’è un ristorante gemello e deserto con una bambina dentro che mi guarda come dire scegli me. Entro ed ordino un Riso saltato con Verdure e la famosissima Beerlao, la birra nazionale. Forse il miglior pasto fatto finora, davvero. Dopo pranzo taglio la penisola che il centro storico forma fra i due fiumi e dal Mekong mi affaccio sul Nam Khan. Sono sul lato opposto della collina che sorge in mezzo del centro e scopro un gran numero di locali semideserti, la sera qui deve essere davvero pieno di gente. Il sole mi riporta in camera, mi sto ustionando la cute del capo, faccio una doccia ma quando chiamo la signora per capire come funziona il ventilatore si scopre che è rotto e vengo spostato nella camera adiacente, che mi sembra persino migliore. Sono appena le tre e mezza ed ho visto già così tante cose oggi! Dormo un ora e alle diciassette esco per salire la collina di Phou Si per osservare il tramonto. I trecento gradini sono praticamente al buio, talmente è fitta la vegetazione. Giunto sulla sommità scopro un tempio piccolo e cadente dal quale la vista toglie il fiato. Il colle è la sola altura della città e si vede tutta la valle, persino la pista di atterraggio dalla quale sono arrivato. Verso ovest, oltre il Mekong dal colore fangoso, il sole comincia a scendere, verso est invece dei nuvoloni neri fanno capolino dai monti Annamiti e si sentono i primi tuoni. Diverse persone sono in attesa del tramonto. Passo gli ultimi momenti di luce a fare foto e riprese ma mentre il cielo si tinge di rosso da un lato, dall’altro un sipario d’acqua scavalca i monti e si avvicina lentamente, come una tenda a perfetta chiusura di una giornata scenica. Fa buio velocemente e alle sette comincia il diluvio. Indosso il mio k-way dal quale ho imparato a non separarmi mai. C’è un’altra scala che scende la collina ma appena la imbocco un gruppo di cani sbuca da un cespuglio e mi ringhia contro per rimandarmi indietro. Quattro monaci bambini dietro di loro li richiamano e ridono indicandomi di scendere da dove sono venuto. E’ così buio che non si vede niente, sento un forte vento sopra di me e il rumore dell’acqua ma su di me cadono solo i fiori bianchi e gialli dei frangipani, mentre né la pioggia né il vento riescono a passare al di sotto.

17 Giugno Sveglia alle cinque e mezza per assistere alla processione dei monaci, la città è già in piena attività e i negozi già aperti, ma i monaci sono già passati ed ho fatto tardi. Domani avrò l’ultima possibilità. Faccio colazione e noleggio una bicicletta per dirigermi Ban Xang Khong, villaggio noto per la produzione di tessuti e carta. Lascio il centro dal ponte ciclopedonale e chiedo più volte informazioni finché vengo indirizzato in una stradina tutta terra, fango e pozzanghere che si addentra nella foresta. Pedalo per una ventina di minuti poi una bambina con la sua bicicletta rosa mi viene incontro. ‘Hello we’iugo’?’ mi chiede. Rispondo, e mi indica di seguirla. Pedaliamo fianco a fianco per altri dieci minuti finché mi annuncia che sono arrivato, saluta e se ne và. Arrivato? Sono in un piccolo spiazzo con dieci capanne, alcune con un telaio a mano ed un negozio annesso. Compro alcune sciarpe ed assisto alla tessitura, poi entro in un negozio di carta e compro un grande foglio bianco e grezzo ed un diario su cui trasferire il mio racconto di viaggio. Mi viene spiegato che per ricavare questa carta si usano escrementi di elefante, strano perché in realtà profuma. Torno in camera a posare gli acquisti, troppo delicati per un eventuale acquazzone, e riparto con meta le cascate Tat Kuang Si. Sono trenta chilometri verso sud, di cui molto in salita, forse pretendo troppo dalla mia bicicletta senza marce. Infatti, quando mancano ancora venti chilometri il tamburo del freno posteriore esce di sede e la ruota si blocca. Scendo per dare un’occhiata ma immediatamente si ferma un ragazzo in scooter che col suo “no problem” si mette al lavoro. Purtroppo l’unica soluzione è togliere il freno perciò decido di tornare indietro e non salire oltre, avendo un solo freno rimasto. La sorte mi assiste e incappo in un cartello che indica ‘Cascate a 1 km’. Saranno meno famose ma almeno vedrò delle cascate! Svolto e sempre sullo sterrato le raggiungo. Un piccolo paradiso, una laguna favolosa e soprattutto delle farfalle grandi come la mia mano tutt’intorno. Entro in acqua facendomi largo fra grosse amebe argentee che sgambettano dappertutto. Che bellezza, ho il mio massaggio laotiano naturale e gratuito: entro sotto la cascata e il getto quasi mi sbuccia le spalle tanto è forte. Poi mi spingo più indietro con la schiena, entro in una nicchia dentro la cascata e scompaio alla vista, davanti a me solo l’acqua. Che felicità! Resto così per diverso tempo, poi provo a correre avanti e indietro dalla riva come un matto per riuscire a farmi un autoscatto sotto la cascata ma dopo vari tentativi rinuncio e mi rimetto sotto il getto. Mentre mi rivesto ecco sei o sette bambini in fila che mi salutano sabaidee ed entrano in acqua. Quando uno di loro adocchia la mia videocamera è una festa: cominciano a tuffarsi uno dopo l’altro e quando riemergono aspettano un mio cenno di conferma che ho ripreso il tuffo. Non mi manderebbero più via ma comincia a piovere e devo andare. Saluto e ringrazio, rimango in costume a torso nudo, tutti i miei averi nella sacca di nylon sono protetti e allora mi godo la pedalata fino in città sotto la pioggia. Dai campi spuntano diversi cappelli di paglia a semicono delle raccoglitrici di riso e naturalmente, dovunque, bambini. Arrivo in camera grondante, mi asciugo fuori casa e poi attraverso la sala, la cucina e la veranda cercando di non gocciolare. Le ragazze stanno pranzando davanti alla mia camera e ridono. ‘You wet’. Per la prima volta oggi controllo l’orario. Incredibile! Soltanto l’una! Faccio un po’ di bucato, la doccia, ed esco per riconsegnare la bicicletta. Magia: sole e tutto asciutto, come non fosse mai piovuto. Scelgo un ristorante centrale ed ordino un Curry Rosso con l’immancabile Beerlao che costa meno dell’acqua. Che giornata bellissima anche oggi e tutto questo in una mattina. Nel pomeriggio dolce far niente davvero! Mi siedo al Cafè des Arts e vengo avvicinato da bambini che vendono braccialetti. Rifiuto i primi tre come ne ho rifiutati due a pranzo ma al quarto cedo e mi provo qualche braccialetto. Niente, nessuno mi entra, sono tutti piccolini! La bambina fa il broncio ed io le offro 1000 Kip. Li prende, mi guarda trafiggendomi con lo sguardo e me li lancia sul tavolo no charity!!! Arrossisco, e lei se ne và con la testa alzata sprezzante tipo sorellastra di cenerentola. Comincio a sentire gli effetti dell’insolazione, testa e collo non li posso manco sfiorare con le mani ma fortunatamente neppure una puntura di insetto. Vado a letto dalle cinque alle sette e poi esco per l’ultima cena in città, che passo in un locale dove faccio conoscenza con un ragazzo del posto, guardo un film sul maxischermo e poi di nuovo a letto.

18 Giugno Stavolta mi alzo davvero e per le cinque sono già in posizione per veder sfilare i monaci. Una signora mi fornisce un tappetino su cui inginocchiarmi e mi vende del riso bollito, involtini di pollo e frutta disidratata da offrire loro. E’ ancora molto buio ma dopo venti minuti un gong annuncia l’arrivo e poco dopo ecco i monaci con le loro tuniche zafferano in fila dal più vecchio al più giovane. Dopo i primi venti le vivande di cui dispongo sono già finite e i monaci sono tantissimi, arrivano da ogni direzione scalzi, in silenzio e aprono le loro ciotole soltanto davanti a chi si sporge con qualcosa in mano. E’ un esperienza molto emozionante e solenne che dura quasi mezz’ora. Facccio un ultimo giro al mercato e poi alle otto un tuk-tuk viene a prelevarmi per portarmi alla stazione degli autobus. Saluto la signora che mi ha ospitato e parto. L’autobus è una reliquia vecchia di almeno trent’anni o forse più, all’interno ci sono i sedili tutti rotti e sul soffitto ventilatori da casa roteanti. Siamo circa venticinque passeggeri fra cui un monaco di circa quindici anni. Per la prima mezz’ora il bus si inerpica sulla strada che porta a sud verso la capitale, poi un cartello indica ‘Sainyabouli 63km’, svoltiamo a destra e… addio asfalto! Quel che segue ha dell’incredibile. Cinque ore di strada sterrata, con sobbalzi da rompere le ossa e un continuo saliscendi, spesso il bus si ferma per ingranare le marce ridotte. Ho portato soltanto dell’acqua ma non ho fame, il paesaggio mi rapisce e nonostante la scomodità vorrei che la tratta non finisse mai. Attraversiamo decine di villaggi piccolissimi e tutti pieni di bambini scalzi che corrono dietro all’autobus. Qualche volta ci fermiamo perché si possa comprare dal finestrino quello che le donne vengono a venderci. Poi, dopo ore di fitta vegetazione e saliscendi la strada finisce dentro al Mekong, direttamente in acqua. Scendiamo dal bus per riposare le gambe e la schiena e alcune bancarelle improvvisate dai contadini vendono qualsiasi cosa, ma niente che io desideri o che mi svegli l’appetito. Di fianco a me c’è qualcosa che si muove… credevo fosse un sacco di riso scaricato dal cassone ma in realtà e’ una bella grassa scrofa spalmata nel terreno distrutta dal calore. Poco dopo ecco il traghetto, praticamente un pezzo di strada semovente grande come il bus. La traversata dura dieci minuti e dopo altri quaranta minuti di strada siamo a Sainyabouli, oppure Xaignaburi come talvolta si trova scritto. Anche qui il cuore del paese è il mercato alimentare pieno di donne in costume tradizionale. Fra le altre cose bizzarre mi colpiscono i pipistrelli alla griglia, ma preferisco puntare degli invitanti bocconcini di pollo e degli spaghetti di riso con verdure che mi vengono serviti in una busta di plastica e vanno mangiati con le mani. Non c’è molto in questo posto, è la provincia piuù sperduta del Laos, non geograficamente ma fisicamente perchè esistono solo duestrade per raggiungerla e tutto il resto è foresta primaria e villaggi abitati da oltre trenta diverse etnie. C’è un immenso viale che attraversa il paese, è impressionantemente largo, come se qualcuno stesse per costruire una città in questo luogo: da un lato il viale finisce contro una scalinata con un bianco stupa sulla sommità, dall’altra si stringe in uno strettissimo ponte sul fiume. La mancanza di attrattive turistiche rende il tutto molto affascinante, la gente mi guarda con stupore. Passo il pomeriggio a cercare in ogni bancarella e in ogni pensione qualcuno che parli inglese o francese ma niente da fare. Neppure il guidatore di tuk-tuk davanti alla mia cartina, ai miei gesti, alle parole scritte su un foglio, riesce a capire che l’indomani vorrei andare alla stazione degli autobus per prendere il bus per Pak-Lai. Decido di rinunciare, mi alzerò presto e andrò alla stazione a piedi. La sera il cielo è così gonfio di stelle che non riesco ad individuare neppure una costellazione, c’è un silenzio totale e si sente soltanto il rumore dei grilli. Vado a letto presto ma non riesco a dormire: lo scarico del WC non si ferma completamente e il rumore dell’acqua è incessante e fastidioso. Mi alzo e cerco di ripararlo, apro il cassonetto e… tragedia! Il Galleggiante mi rimane in mano e il getto parte incessante alla massima potenza, facendo un fracasso esagerato! Disperato provo a ripararlo, canticchiandomi mentalmente la canzoncina di Mac Gyver, ma niente da fare, provo a coprire la scatola del water con l’asciugamano per attenuare il rumore ma non cambia niente. Sudo per il nervoso: cosa dirò alla padrona e soprattutto come visto che non parla nient’altro che Lao? E se da fuori si sente magari mi vengono a bussare? Che figura! Dopo il panico iniziale, un pensiero diabolico: dormirò fino alle quattro e me ne andrò in silenzio, come un criminale… La camera è già pagata perciò forse, per una volta… Non so come, riesco a prendere sonno intorno a mezzanotte.

19 Giugno Alle 4,30 sono già fuori, col mio zaino gigante e un sacco di strada da fare a piedi. Che avventura e che adrenalina! Davanti ad ogni casetta si accendono già i primi fuochi per bollire l’acqua e al mercato le prime contadine arrivano coi loro carretti a spinta. L’alba è appena iniziata e si vedono ancora diverse stelle e la luna. Mi dirigo a sud, in cerca della stazione degli autobus. In Laos, camion ed autobus non possono entrare nei centri abitati, i terminal sono di solito due o tre chilometri fuori dall’abitato. Io, in questo caso, devo attraversare il paese e poi fare circa tre chilometri verso sud, ma vado a caso sull’unica strada perché i cartelli sono tutti in caratteri lao. Mentre cammino si fa giorno e per le cinque e mezzo costeggio l’aeroporto: una striscia di asfalto in un campo nella quale atterra un solo volo alla settimana da Vientiane, ma per soli sei mesi all’anno. Alle sei sono al terminal. Rimango prima immobile dallo stupore ma poi quel che vedo mi emoziona ancora più. La guida non specifica che per terminal si intende una baracca di legno in un campo, ma soprattutto non specifica che non esistono i bus, ma solo i Sawngathew, l’equivalente della nostra Ape Poker sul cui cassone sono montate due file di panche ai lati e un tettuccio. Faccio il biglietto e attendo circa un’ora e mezza, fino a che non si raggiunge un numero minimo di passeggeri: siamo in diciotto a bordo, compresi i bagagli, sacchi di riso, verdure e un neonato. La strada è poco più di un sentiero sassoso fatto di buche, fosse, pozzanghere e lunghissimi tratti di solo fango, il tutto per un viaggio di centottanta chilometri in 6 ore. Finora, la cosa più bella che mi sia capitata è questo viaggio. Durante il tragitto carichiamo e lasciamo passeggeri ed io vengo spinto sempre più in coda. Prima mi ritrovo con un piede fuori, poi tutti e due, e infine, per un tratto, sono rimasto appeso all’esterno del cassone, in piedi sul predellino tenendomi alle barre laterali come una scimmia. Siamo arrivati anche a ventitrè persone a bordo. Nelle varie fermate ho potuto sedermi di nuovo ma subito dopo una ragazzina con in mano un mazzo di 4 polli legati per le gambe entra posandomeli sul piede, l’unico spazio possibile, dove i poveri animali non esitano a lasciare la loro firma… Viaggiamo attraverso paesaggi incontaminati, foreste, montagne, salite ripide e fangose, pianure, risaie sconfinate. Rimango impressionato dalla varietà di villaggi e di popoli che incontriamo. I Lao delle pianure vivono in abitazioni di pietra o di cemento, hanno qualche comodità e si parla ancora di paese. I Lao delle risaie vivono su palafitte, sotto le quali si vedono bufali, mucche, maiali e polli. I Lao delle Colline vivono invece in capanne di legno o bambù, alcune piccole comunità hanno invece solo un semplice tetto di paglia senza pareti. Ma tutti lavorano, tutti coltivano, allevano e lungo la strada espongono le loro merci correndo dietro a quell’unico mezzo della giornata che passa e che è il solo segnale che qualcosa al di là delle montagne esiste. Una sola cosa accomuna tutti i villaggi: un numero impressionante di bambini. Bambini che ridono Salutare è una parola che in italiano ha due significati, ma io penso che in fondo siano legati. Salutare qualcuno è qualcosa di fisicamente salutare, fa proprio bene allo spirito e in questo assurdo rocambolesco tragitto centinaia di bambini nudi o vestiti, sporchi o puliti, vedendo me, straniero, sventolano le loro manine e mi urlano dietro il loro saluto. E’ una cosa che strappa via il cuore. Vorrei che questo viaggio pieno di sobbalzi, scossoni, dolore, sole a picco e un paio di acquazzoni non finisse mai. Le ore volano in un soffio. Facciamo un paio di soste per espletare i nostri bisogni ed una in un villaggio in cui una serie di donne lungo la strada vende esclusivamente ananas e cetrioli, i soli prodotti di questo periodo. A Pak Lai arrivo tutto colorato di rosso: la polvere sollevata è entrata ovunque nello zaino, nella borsa chiusa, nella fotocamera. Dappertutto. Il cellulare non si apre neppure più. Ho la bocca impastata, le orecchie tappate, gli occhi appiccicati e prurito dovunque. E allora? Non mi importa proprio un bel niente. Prima di dormire faccio il bucato e poi cerco un posto dove mangiare. Conosco un signore australiano e gli offro una birra, chiacchieriamo un po’ e ci diamo appuntamento a domattina per imbarcarci verso Vientiane. Prima di dormire ripercorro la giornata appena trascorsa e cerco di fissare ogni dettaglio nella memoria, sono entusiasta di questi luoghi.

20 Giugno Prima dell’alba sono già sveglio e decido di uscire sul balcone della mia camera a guardare l’alba. Il bucato è già asciutto. Mi siedo a guardare nel vuoto, si vede solo una striscia dorata che contorna i monti oltre il fiume. Lentamente la luce aumenta, finchè comincio a distinguere anche l’altra sponda del fiume. Si sentono soltanto i grilli e i geki che, non lo sapevo, emettono un suono stridulo simile ad un asino. Sulla riva opposta scorgo due sagome grandi e scure che entrano in acqua. Sento lo splash e poco dopo vedo dei grandi sbuffi d’acqua. Sono certo che si tratti di elefanti ma la distanza è troppa. Alle sei vado al mercato locale, ormai sto diventando un esperto. Mangio una cosa di una bontà inaspettata: pollo fritto ripieno di banana, non vedo l’ora di provare a rifarlo. La barca che mi porterà a Vientiane è già pronta. Compro alcune pannocchie bollite, una specie di salsiccia, l’acqua e per tutto il tragitto mi godo il panorama prendendo ancora altro sole. La barca è lunghissima, ha trenta file di sedili, ma è molto stretta, quanto un furgoncino, e scivola sul fiume con una discreta velocità. Il Mekong però è molto particolare: pur essendo larghissimo (nasce in Tibet e dopo Laos e Thailandia raggiunge Cambogia e Vietnam) non in tutti i tratti è navigabile perchè ha diverse rapide e migliaia di isolotti e scogli affioranti. La navigazione difficilmente è lineare, si procede zigzagando da una riva all’altra fra grosse pietre che quasi sfiorano la delicata imbarcazione. Dopo due ore di tragitto, il fiume diventa il confine naturale fra Laos e Thailandia e lo rimarrà fino in Cambogia. La differenza fra i due paesi si vede perfino dal qui: a destra, villaggi con case relativamente lussuose, strade e colline con colossali buddha dorati sulle sommità. A sinistra il paesaggio laotiano è pura natura e qualche capanna sparsa alla rinfusa. Otto ore trascorrono piacevolmente, chiacchierando con Steve, l’australiano. A Vientiane si sbarca fuori città, come sembra essere la norma e in tuk-tuk raggiungo il centro. Prendo una camera a caso in una Guest House lungo fiume e passeggio un po’per il centro. A Vientiane l’eredità lasciata dal colonialismo francese è molto evidente, tutti i cartelli sono bilingue ma ormai soltanto qualche anziano parla francese, i ragazzi sono tutti impegnati a mettere in pratica il loro inglese, qui visto come un passaporto per il mondo, ed è molto facile riuscire finalmente ad avere una conversazione più lunga di due frasi. Il centro è molto calmo, il traffico praticamente inesistente, purtroppo però la città è piena di americani stabilitisi qui o in vacanza che si accompagnano a bambine locali forse neppure maggiorenni, alcune con la faccia davvero triste, tutte truccate e perfettamente vestite di fianco a grassi sessantenni con la camicia a fiori: l’immagine della tristezza. L’acquazzone che mi travolge è il più violento visto finora, neppure il k-way basta a fermarlo e mi rifugio in un bar con musica dal vivo dove, manco a farlo apposta, ritrovo Steve. La sua vacanza dura da cinque settimane ed è piacevole trovare qualcuno che, superati i cinquanta e rimasto solo, affronta un tipo di vacanza incentrato sulla cultura e non sul divertimento come lo intendono molti dei suoi coetanei anglofoni. Mi offre un Lao Lao, il liquore locale per ringraziarmi della birra che gli ho offerto a Pak Lai e la chiacchierata prosegue per oltre un’ora. Vado a letto combattuto sul da farsi. Lascio il Laos oppure no? Mi trovo in un punto dal quale spostarsi in altre località laotiane richiede almeno un giorno di viaggio per poi ritornare comunque qui, e se qualcosa va storto potrei rischiare di perdere il volo da Bangkok. Mi addormento senza aver deciso con la luce accesa e il ventilatore al massimo.

21 Giugno Mi alzo e sotto la doccia prendo la mia decisione: visiterò in mattinata i due monumenti principali di Vientiane e dopo pranzo prenderò il bus per Nong Khai, in Thailandia. Il mio cellulare è semidistrutto: non posso spengerlo nè riagganciare perchè il tasto con la cornetta rossa è disattivo, inoltre è pieno di sabbia in ogni fessura. Al mercato trovo una serie di bancarelle fra le quali una che vende e ripara cellulari. Per un solo euro un anziano signore spende un intera ora ad aprirlo in mille pezzi, soffiarlo, pulirlo, sostituire il tasto rotto e mi riconsegna un cellulare che stento a riconoscere, praticamente nuovo. Noleggio un tuk-tuk tutto per me che mi porta ai due monumenti principali, mi aspetta e mi riporta alla stazione degli autobus. Il sole è molto più intenso che nel nord del paese e trasportare il pesante zaino mi fa bruciare le spalle così tanto che spesso devo fermarmi e toglierlo. L’autobus per la Thailandia è moderno e comodo, a bordo siamo solo in dodici fra cui 4 Giapponesi simpaticissimi. In meno di mezz’ora siamo al Ponte dell’Amicizia, uno dei due soli ponti che attraversano gli oltre quattromila chilometri del Mekong. Questo ponte è stato costruito e donato dall’Australia. Sbrigate le formalità doganali le due corsie di marcia si invertono con uno strano rendez-vous di curve: in Laos si guida infatti alla nostra maniera mentre in Thailandia alla maniera degli inglesi. Oltre il fiume, a pochissimi chilometri, scendo nella cittadina di Nong Khai, sulla riva sud.

(Il viaggio prosegue fra i viaggi della Thailandia)

scrittura

Volare Sorridendo (filastrocca)

Nacque un giorno una farfalla incapace di volare

e discese lungo il tronco senza invece decollare.

Labirinti di corteccia attraversò lei discendendo

e tranquilla si diresse dritta al suolo sorridendo.

La sua vita trascorreva ferma a terra ma felice

perché basta abituarsi ed ogni cosa ci si addice.

Fu così che poté vivere esperienze eccezionali

pur dovendo suo malgrado fare a meno delle ali

Andò a vivere in un fungo che arredò di sassolini

e di giorno si occupava soprattutto di bambini .

Bruchi, larve e insetti vari affollavano la scuola

tutti attenti sotto l’ombra di quelle sue ali viola

Pranzo e cena nel giardino con ricette assai gustose

miscelando miele e polline di gigli, calle e rose .

Sotto fiori variopinti dalla luce attraversati

alla sera lei danzava con gli amici affezionati

Qualche volta si fermava ad osservare le sorelle

svolazzanti su nel cielo come colorate stelle .

Non avrebbe mai saputo cosa può significare

stare in volo sopra il mondo e su di un fiore poi atterrare

Ma si accorse molto presto che a sua volta era ammirata

e nessuno le permise di sentirsi sconsolata .

Le farfalle che volando non si fermano a guardare

non conosceranno mai quel mondo suo e particolare .

La farfalla visse a terra ma non le mancò mai nulla

c’è chi vola, nuota o striscia e nonostante si trastulla.

E la vita è una soltanto e per ognuno singolare

perché stare a lamentarsi? Cominciamo a colorare!

Colorare i propri giorni con sorrisi spensierati

vi farà volare in alto in ogni modo siate nati .

Alti, brutti, belli o soli non importerà più niente

se col cuore riuscirete a far innamorar la gente .

Perché al mondo, scoprirete, non esiste cattiveria

solo qualche faccia grigia a cui piace essere seria .

Ma se riuscirete sempre a far felici i vostri cari

non occorreranno ali, avrete un cuore senza pari.

(pubblicata nell’antologia Cifa Ong – Sorridere CiFa Bene 2008)

scrittura

Tramonti (racconto)

Silenzio e magia. La veranda vestita di natura trabocca di vita anche la notte, quando la luce della luna, indisturbata, mostra ancora il rosso cupo di un grappolo d’uva appassita e il viola di un fico d’India. Con discrezione, ogni pianta rimane nel proprio spazio ed in cambio le è concesso di completare il proprio ciclo vitale senza violenza. Così, anche il basilico ha potuto fortificare il fusto e ingrandire le foglie senza perderne il profumo, il roveto si è fatto cornice senza essere invadente e un sottile equilibrio, che sembrerebbe separare un trionfale lusso da un’apparente trascuratezza, sostiene quel mondo incantato. La piccola casa, incastonata fra mare e cielo, sembra essere lì da sempre, quasi fosse un prodotto della terra che, grata di tanta semplicità, l’ha fatta propria fondendola con il paesaggio. La luna, dopo un’ultima occhiata, sparisce oltre il mare. In quel silenzio, Renato si sveglia e scende scalzo dal soppalco nell’unica stanza. Non si può definirne l’arredamento, né è possibile contare gli oggetti, ma lui ha curato ogni dettaglio e sa bene come muoversi. Lo spazio perde di significato e quell’ambiente che non ha niente è così completo e perfetto che la sola cosa che manca è proprio lì, accanto. Non appena lui si incammina, l’orizzonte si accende di nuovo e riprende a luccicare. Diverse centinaia di scalini lo separano dal mare, qualche centinaia in più dal paese sopra di lui. Oggi però ha deciso di scendere. Mentre avanza, mille luccicanti stelle a pelo d’acqua gli corrono incontro e alle sue spalle si annuncia il sole anche oggi. Scende sicuro, come ha fatto un’infinità di volte, conosce ogni scalino abbastanza da dargli un nome. Scende Renato al mare e il mare gli si accende davanti. Vicino e lontano non sono ammessi in quel luogo e non appena giunge in spiaggia sparisce la distanza percorsa, come avesse volato. Proprio mentre si accinge a spogliarsi il sole gli accarezza il collo, lo saluta, e la scintillante corsa di luci termina ai suoi piedi. Tutto è in luce adesso e tocca a lui tuffarsi dove la luna si è tuffata prima e dove il sole si tufferà poi. Sarà così anche domani. Mentre spinge i pensieri sott’acqua e leva al cielo il piacere, le ore passano ed il sole smette di salire. Intanto, la casa lo attende cullando la vite coi suoi fianchi, liberando minuscoli abitanti e aspettandosi un gioiello nuovo in dono. Asciutto, Renato comincia la salita senza fatica. Dieci, cento, cinquecento scalini non sono niente col sole alle spalle che lo sospinge e quando giunge sotto la veranda si volta a ringraziarlo e lo osserva immergersi. Poi si volta verso la casa, le accarezza sorridente le pietre della facciata, la guarda attento cercando la fessura giusta e vi posa il suo regalo di oggi: una conchiglia bianca. Lei lo lascia entrare e lo avvolge di gratitudine, lui le regala una musica classica e una candela accesa. Lei lo osserva mangiare e lui la osserva arrossire in un tramonto di fuoco, poi esce fuori ed entrambi si tingono d’argento. La luna si accorge della nuova conchiglia e la fa splendere insieme a tutte le altre e la casa si avvolge in un’aura candida. Domani accadrà ancora, poi ancora. Qualche volta un gruppo di amici arriverà ad ammirare l’incantesimo, coccolerà quel luogo, e guarderà Renato chiedendosi come tutto ciò sia possibile. Poi gli ospiti se ne andranno, percorrendo distrutti l’infinita scalinata, torneranno ai loro mondi diversi, inebriati e storditi dallo spettacolo e ne custodiranno gelosamente il segreto con la speranza di avere l’onore, un giorno, di assistervi ancora.

scrittura

Il Telaio di Emma

(fiaba)

C’era una valle dove, molti anni fa, viveva soltanto una ragazzina di nome Emma. La casa aveva un ricco orticello e nel giardino vivevano galline, maiali e pecore, così c’erano latte e uova, miele ed olio, frutta, verdura e lana. Ogni giorno, munte le pecore e raccolti gli ortaggi, Emma lavorava la lana. Dopo averla filata a mano, la tesseva col suo telaio di legno a pedale. Con bacche e radici macinate otteneva i colori, vi immergeva le stoffe per qualche ora e le stendeva al sole ad asciugare. Il giardino si riempiva spesso di mille tessuti colorati che poi Emma cuciva creando maglioni, sciarpe, coperte e cappotti. Vi chiederete perché preparasse tanti vestiti se abitava da sola in quella valle. Dovete sapere che, prima di arrivare lì, Emma viveva in una città piena di fabbriche e fumo dove tutti lavoravano senza mai vedere il Sole. Un giorno, stanca ed infelice, aveva deciso di risalire il fiume in cerca di un luogo migliore. Da allora, ogni settimana, preparava un cesto di abiti e coperte che affidava al fiume lasciando che la corrente lo trasportasse in città a riscaldare e colorare quel luogo grigio. Questo le bastava ad essere felice e la sua gioia si era trasmessa a piante ed animali; perfino la Luna si fermava spesso ad osservarla dalla finestra mentre filava cantando.

Elio de Luca 2007
Opera del Maestro Elio de Luca ispirata a questa fiaba.

Trascorsero alcuni anni finché arrivò un inverno così freddo che il fiume congelò: gli animali restarono chiusi nella stalla ed Emma non poté uscire per giorni. La neve sul tetto divenne così pesante che improvvisamente una sera il soffitto crollò nella casa e distrusse il telaio. Emma, che era nella stalla, scoppiò a piangere scoprendo l’accaduto e la sua disperazione fu tale che anche la Luna, affacciandosi dal monte, udì il suo pianto e commossa si rivolse agli alberi sulla cima chiedendo loro di aiutarla. Come per incanto, gli alberi estrassero le radici dal terreno e si incamminarono a valle lasciando la vetta scoperta come una grossa testa pelata. Attraversarono il fiume ghiacciato e giunsero alla casa di Emma che li guardò arrivare stupita. Gli alberi più piccoli, a testa in giù come scope, spazzarono via la neve dentro casa, gli altri invece spiccarono un salto lanciando foglie e rami in aria e si appoggiarono spogli come travi sul tetto vuoto: rami e foglie ricaddero ordinatamente come tegole sul nuovo tetto e la casa fu finalmente coperta. Emma adesso piangeva di gioia ed entrò in casa ancora incredula. Anche in città aveva nevicato e molti bambini, che avevano sempre raccolto il cesto dall’acqua, si preoccuparono che il misterioso fabbricante di abiti potesse essere solo e al freddo. Decisero perciò di risalire il corso del fiume per andarlo a cercare. Camminarono lungo la riva finché trovarono una casa dal tetto di foglie. Dalle finestre osservarono una ragazza che filava cantando davanti al fuoco e capirono che era lei ad averli vestiti per tanti inverni. Corsero dentro ad abbracciarla ed Emma, stringendo quei cappotti, sciarpe e cappelli, riconobbe i suoi tessuti e provò l’emozione più grande della sua vita. Quella sera a tavola ci fu zuppa per tutti e insieme ripararono il telaio. Quando il fiume riprese a scorrere nuove ceste di vestiti furono spedite ma i bambini, incantati da quel luogo, decisero di fermarsi lì e tante altre casette furono costruite nella valle, ognuna col proprio telaio. Sulla vetta del monte lasciata vuota dagli alberi comparve un grande prato verde e tutti vollero chiamare proprio così la nuova città: Prato. Ancora oggi, guardando lassù, potrete vedere quel prato dal quale ogni tanto, nelle notti serene, sorge ancora la Luna.

(fiaba vincitrice del concorso nazionale “Un Prato di Fiabe 2007”)