10 Ottobre
Dopo aver visitato Laos e Thailandia pensavo di potermi considerare pronto agli altri paesi asiatici, invece l’arrivo a Kathmandu ugualmente impressionante. La vista dell’Himalaya dall’aereo mi lascia senza parole, è la cosa più imponente che si possa immaginare. L’aeroporto è minuscolo, ricorda un supermercato abbandonato. Cambiati i soldi e superata una lunga coda per il visto, sono ufficialmente in Nepal. Ho molta fretta di arrivare alla stazione degli autobus, raggiungere Pokhara richiederà almeno sei ore e vorrei arrivare prima che faccia buio. Il taxi è un minuscolo rudere di età indecifrabile privo di tappezzeria interna e con la carrozzeria tenuta insieme da un misterioso equilibrio, forse dal dio Ganesh che campeggia sull’aletta parasole. La città è un vero disastro, un groviglio di veicoli di ogni genere e misura che si fa largo senza regole fra pedoni incoscienti, ciclisti spauriti, mucche sacre e bancarelle di ogni sorta, il tutto condito da cumuli di rifiuti e macerie. Non un solo edifico è completo, tutto è cadente e qualsiasi superficie verticale è ricoperta di manifesti pubblicitari coloratissimi. L’aria è così inquinata che quasi tutti portano una maschera. Dopo venti minuti di clacson e gimcane sono alla fermata, uno slargo sterrato pieno di furgoncini Nissan. Caricato e legato lo zaino sul portapacchi, salgo a bordo. Siamo in ventitrè persone in soli quindici posti, inclusa una neonata che la madre allatta vicino a me appoggiandomela addosso. Occorre un’ora per uscire dalla città ma dopo qualche tornante siamo di nuovo in coda. Un ragazzo mi spiega che un camion deve essersi guastato bloccando il passaggio. Scendiamo per metterci all’ombra e ci affacciamo nella profonda valle sotto di noi dove un lungo serpente di camion e autobus si snoda per chilometri. Impieghiamo un’altra ora e mezza per superare l’ingorgo, poi il furgone corre a folle velocità sulla strada a strapiombo, facendo sorpassi da videogame. La strada è piena di buche e la radio è tenuta al massimo volume. Ci fermiamo un paio di volte nelle seguenti tre ore e poi sostiamo per il pranzo. Nel piccolo ristorante tutti si dirigono in bagno a lavarsi mani e testa. Faccio altrettanto e capisco che, dovendo mangiare senza posate, questa è la prassi. Chiedo allo stesso ragazzo di aiutarmi con la scelta del cibo e mi fa sedere con sé. Ordiniamo il dhalbat, piatto nazionale nepalese composto da riso bollito e crema di lenticchie accompagnati con curry di verdure. Delizioso, ma mangiarlo con le mani non è impresa facile. Il ragazzo mi racconta delle sue origini tibetane, i suoi genitori sono stati esiliati nel 1962 e lui è nato in Nepal. Ha studiato, si è laureato in India e guida un’associazione pacifica di liberazione per il Tibet. Conosce ed ha incontrato più volte il Dalai Lama, ascolto rapito ogni parola. Ripartiamo, ancora quattro ore ci separano da Pokhara. L’aria è soffocante, la musica martellante e le scosse mi impediscono di trovare una posizione comoda. Nonostante ciò, sono così stanco che mi appisolo un paio di volte. Una nuova coda ci fa fermare: bisogna attraversare un ponte talmente malandato e pericolante che solo un mezzo alla volta può transitare. Trattengo il fiato durante il passaggio, sotto di noi il fiume Trisuli scorre impetuoso e forma diverse rapide. Molti dei furgoni ed autobus che incontriamo hanno capre in piedi sul portapacchi: siamo in pieno Dasain, la festa nazionale più sentita, e tutti devono procurarsi una capra da sacrificare. Arrivo a Pokhara che è buio e piove, nessuno dei taxisti conosce l’orfanotrofio, potrei camminare ma con non c’è illuminazione, a malapena si distinguono i volti delle persone. Un ragazzino si offre di telefonare a Goma, la direttrice della Rainbow Children Home, e si fa spiegare la strada. Al mio arrivo vengo portato in ufficio, pago la mia quota e vengo invitato ad accomodarmi in hotel perchè, secondo Goma devo riposare bene e in silenzio. L’hotel è carino, dalla finestra vedo l’orfanotrofio, la camera ha due letti ma entrambi sono occupati dalle formichine rosse e qualche scarafaggio, inutilizzabili. Sbatto le lenzuola, rifaccio il letto ed uso il mio sacco a pelo. Pochi minuti dopo manca la corrente: sono appena le venti ed è buio da ore. In piena notte mi sveglio con una tremenda urgenza di andare in bagno, che si trova in giardino. Mi vesto e scendo le scale ma un cancello blocca l’uscita. Rischio di farla nei pantaloni. Nella disperazione adocchio una bottiglia in un cestino e mi arrangio così.
11 Ottobre
La sveglia suona alle sette, quasi dieci ore di sonno! Dalla finestra vedo il Machapuchhre, un picco piramidale di settemila metri di una bellezza sconvolgente. Vorrei fare la doccia ma quando scendo in giardino ed apro la porta la trovo piena di panni e tinozze, quindi mi lavo a pezzi nel lavandino, all’aperto, e vado all’orfanotrofio. C’è una donna in cucina, la cuoca, lavora in silenzio e sembra assente. Mi vengono servite due fette di pane, una marmellata dolcissima, fatta praticamente di soli coloranti, e del tè. Conosco Marta, una ragazza spagnola che si trova nell’orfanotrofio da una settimana. Secondo lei la ragione per la quale sono stato mandato in hotel è che non ci sono altre stanze oltre la sua che lei condivide già con Jennifer, una signora neozelandese. Jennifer appare poco dopo, è molto alta e magra ed il suo inglese è davvero singolare per me che sono abituato a quello americano, ha deciso che andrà in hotel a sue spese per le prossime due notti perché, dice, la doccia è inutilizzabile, scende un filo d’acqua e non si riesce a lavar via il sapone. I bambini vengono a presentarsi, tutti sorridenti e tutti, anche i più piccoli, con una sorprendente conoscenza dell’inglese! La cosa mi meraviglia moltissimo, anche i bimbi di quattro anni capiscono tutto e conoscono un sacco di parole. Più tardi li porteremo al parco sul lago. I bambini fanno a gara per mostrarmi le loro camerette tirandomi per la mano. Ci sono tre stanze per i bimbi al piano terra, e tre per le bimbe al secondo piano, ciascuna con tre letti a castello. Fatti due conti realizzo che ci sono più bimbi che letti e infatti molti dormono insieme. Andiamo al parco camminando in fila indiana per Pokhara. Le strade sono sterrate e fangose, piene di sporcizia. I cavi elettrici sui lampioni sono stesi a caso e grappoli di nodi e connessioni sembrano nidi di cicogna. Ho la piccola Indreni in una mano e il piccolo Bibek nell’altra. Devo cominciare a familiarizzare coi nomi. Al parco i più grandi formano le squadre: naturalmente si gioca a calcio. Non ho mai giocato in trent’anni ma stavolta mi tocca, e infatti vengo messo in porta appena si accorgono del mio scarso livello di conoscenza del gioco. Le bambine invece giocano a rincorrersi e ad arrampicarsi su un albero con Marta. Jennifer ha comprato biscotti e burro d’arachidi e dopo un’ora facciamo fare merenda ai bambini. Poco dopo arriva un venditore di gelati e ne compriamo uno ciascuno: ventidue gelati per due euro! Le bambine più grandi non sono venute al parco perchè dovevano lavare i panni mentre altri bimbi, almeno tre credo, si trovano a casa dai familiari per la festa, il Dasain prevede due settimane di vacanza. Ci sono ventisette bimbi in orfanotrofio al momento, mentre altri cinque vengono sostenuti dalla struttura ma vivono con i familiari. Mangiano solo riso e lenticchie tutti i giorni, tutto l’anno. Incredibile. Quando rientriamo Marta si mette a lavare i bimbi piccoli in una tinozza mentre io mi occupo dei vestiti. Gli altri si mettono subito al lavoro: alcuni puliscono, altri lavorano con un piccolo arcolaio per fare gomitoli e bobine di filato che prima hanno tinto. Nel pomeriggio arriva Raquel, una ragazza messicana. Ci domandiamo perchè questi bambini lavorino così tanto e dove vadano a finire i soldi che noi paghiamo vista la povertà del pasto e le condizioni di vita. Gli mangiano anche altre pietanze che non vediamo offrire ai piccoli. Raquel decide di indagare sul funzionamento della struttura parlando con Goma prima di unirsi a noi e pagare la quota, perciò al momento di compilare il modulo di ammissione le spiega che preferirebbe spendere una parte dei soldi in medicine e cibo piuttosto che dare tutto a lei, ma Goma glissa ogni risposta e sembra perplessa. Poco dopo, Goma viene ad invitare me e Raquel ad accompagnarla al mercato, in modo che possiamo vedere come spende i soldi. Con noi viene anche Kamal, il più grande dei bambini, che ha tredici anni. Andiamo in auto a Pokhara vecchia, in una giungla di bancarelle e persone. La prima tappa è il negozio di spezie, dove Goma sceglie con cura granelli di pepe, semi di cumino, lenticchie, cannella e curry. Mi faccio avanti e pago io. La seconda tappa è la bancarella di colori in polvere e qui compra del rosso per apporre sulla fronte dei bimbi la tika, segno di benedizione tradizionale. Infine è la volta dei vestiti nuovi per Kamal, ma lui rifiuta i pantaloni nuovi in un paio di bancarelle perchè troppo cari. Si convince solo quando Goma ottiene una maglietta compresa nel prezzo. La tradizione vuole che ognuno abbia dei vestiti nuovi per il Dasain, chissà se Goma farà altrettanto per tutti i bambini, sembra impossibile. Mi fermo davanti ad un negozio di cibo indiano e compro un Samosa a testa, una specie di raviolone croccante e speziato con ripieno di patate, piselli e altre verdure, una bontà esagerata. Appena tornati decido che è il momento di dare ai bambini i miei doni. Li riunisco intorno ad un tavolo e distribuisco matite, pennarelli, palloncini ed alcuni semi di fiori da piantare. Enoch, fratello di Goma e responsabile con lei dell’orfanotrofio, decide che i pennarelli e le matite si useranno solo quando avranno finito quelli che hanno già, e li chiude in un armadietto, ma sembra molto entusiasta dei semi e ci mettiamo a piantarne alcuni immediatamente. Per il resto del pomeriggio gioco con i bambini piccoli, molti sono raffreddati e i loro nasi sono perennemente bagnati e gocciolanti, non riesco a mettermi in pari a pulirli tutti. Le narici sono molto irritate e screpolate e quasi tutti hanno una brutta tosse. Più tardi arrivano Susanne e Marit dalla Svizzera, altre due volontarie. Hanno intenzione di fermarsi per sette settimane ma dopo una chiacchierata con noi decidono di programmarne intanto due e vedere poi se restare. E’ l’ora del Dhalbat per tutti, mangiamo e veniamo congedati da Goma. Usciamo per andare a bere un caffé caldo ma improvvisamente si scatena un acquazzone. Ci rifugiamo in un ristorante ed ordiniamo tè e lassi, una bevanda a base di yogurt. Alle nove sono già a letto e dopo aver scritto un po’ nel diario, crollo.
12 Ottobre
Mi alzo alle sei e affronto la doccia gelata: un trauma, ma ne avevo troppo bisogno. Salgo sul tetto dell’hotel ed il sole è già alto: la vista delle montagne è spettacolare. Faccio un piccolo giro per Pokhara e riempio la bottiglia di acqua potabile in uno dei negozi col dal distributore certificato, iniziativa volta a ridurre i rifiuti di plastica. Cerco di non bere mai l’acqua dell’orfanotrofio per non prendere la dissenteria. Nella piccola aula al piano terra i bimbi più grandi stanno facendo lezione con il maestro mentre i piccolini sono in una stanzina esterna fra giochi e quaderni di compiti in compagnia di Marta. Giochiamo un po’ con le costruzioni e poi arrivano anche Susan e Marit. Siamo tutti un po’ perplessi dell’andamento dell’orfanotrofio, dopo la lezione infatti tutti i bambini vengono messi al lavoro con i filati. Alcuni fanno bollire grossi pentoloni di acqua in cui fanno bagni di tintura alle matasse, altri ricavano gomitoli dalle matasse, altri ancora fanno le bobine con una macchinetta a manovella. Mi metto anche io a fare gomitoli mentre Marit e Susan vanno al supermercato a comprare succhi di frutta e vitamine per tutti. Lavoro con Asmita, una ragazzina molto energica e selvaggia, gemella di Ashish e sorella di Kamal. Il loro padre si è lesionato la spina dorsale mentre lavorava nei campi e per curarlo la madre ha venduto le vacche, la casa ed i campi, finendo poi a mendicare. Quando l’uomo è morto la madre ha perso la testa riducendosi a vagare nuda per i campi, addormentandosi per strada e non tornando per giorni. Sono stati questi tre bimbi ad arrivare per primi all’orfanotrofio. Asmita è molto abile con il lavoro e mi rimprovera spesso se rallento. Poi lavoro con Sabina, una bimba meravigliosa molto aggraziata, coi capelli corti e molto vanitosa. C’è molto silenzio durante il lavoro. Marta mi porta in camera sua dove le riparo la doccia che è incrostata e non butta più acqua e poco dopo a noi volontari vengono serviti i noodles, spaghetti in brodo piccanti, mentre i bambini hanno del riso soffiato e una tazza di tè. Le stoviglie sono di metallo, sia piatti che bicchieri, e si mangia con le mani, ma per noi ci sono sempre dei cucchiai a disposizione. Susanne e Marit distraggono i piccolini facendoli disegnare con gli acquerelli e alle sei Kamal viene da me chiedendomi di accompagnarlo in paese a fare promozione. Lui si sente molto responsabilizzato da essere il maggiore, dimostra più dei suoi tredici anni. Dobbiamo distribuire volantini per far conoscere l’orfanotrofio ed invitare i turisti a visitarci. Nel volanttino sono scritte mille cose fitte ed inutili, penso fra me che pochi lo leggeranno. Per non mandarlo solo accetto, Kamal entra in tutti i ristoranti e lascia i volantini sui tavoli mentre io fermo i turisti per la strada spiegando di cosa si tratta ma quasi nessuno accetta, è molto umiliante. Torniamo che è buio, mangio e poi vengo congedato.
13 Ottobre
Stamattina il miracolo, acqua calda dalla doccia! Mi lavo a lungo, finalmente mi sento pulito. Abbiamo organizzato un’escursione alla Pagoda per Pace nel Mondo, un bianco stupa che si trova oltre il lago in cima ad una collina. I bimbi ndossano i vestiti migliori e mentre si preparano vado a comprare mele e biscotti per fare merenda. Per strada formiamo una processione: ci sono venticinque bambini, Goma, Marta, Marit e Susanne, Jennifer e al lago ci aspettano Raquel e Linda, una scrittrice che ogni tanto viene a trovare i bambini. Goma insiste per scegliere quante e quali barche usare, così ci ritroviamo con due enormi pedalò: uno per Goma da sola con quindici bambini, l’altro con gli altri bimbi, Rachel, Jennifer, Linda e me. Marta, Susanne e Marit hanno invece una canoa a remi. Per Goma ci sono due pedalatori, ma per noi nessun aiuto. Mi alterno ai pedali di una delle due postazioni con Raquel, mentre all’altra c’è Kamal che oggi ha il muso lungo e non collabora molto. Appena attraccati ci dividiamo. Tutti gli adulti tranne Goma e Linda saliranno al tempio e solo dieci bimbi scelgono di fare la scalata. Serviamo i biscotti a tutti e partiamo. Ho per mano Laxchin e Bikash, due fratellini di sette e cinque anni che continuano continuamente a chiamarmi ‘Sir’. La salita è dura ma il panorama ripaga da ogni sforzo. Giunti alla pagoda togliamo le scarpe e saliamo sulla balconata circolare. Il lago Phewa sembra lontanissimo, si vede tutta Pokhara e, a perdita d’occhio, le vette dell’Himalaya centrale. Le foto si sprecano, ci sediamo su un prato e taglio le mele per tutti. Il sole picchia forte e sento il collo e la fronte bruciare. Sujata, undici anni, non avendo altro ha messo un maglione, poveretta, dice di non aver caldo ma la vedo provata e quando incontriamo le fontane le lavo la testa e il collo. La pedalata è di nuovo a mio carico, ma preso il ritmo riesco ad arrivare a destino in meno di mezz’ora, anche se le gambe mi tremano per la fatica. A casa ci aspetta il nostro pasto di riso e lenticchie. Dopo mangiato entro per la prima volta nel bagno dei bambini e rimango di sasso. C’è una turca sommersa dagli escrementi, sulle pareti schizzi di ogni sorta ed il pavimento è un pantano di cartacce e melma. Inorridisco al pensiero che i bambini vengono qui scalzi. Mi armo di spazzole varie e detersivi e mi metto al lavoro. Un secchio d’acqua dopo l’altro, trattenendomi dal vomitare, riesco a far tornare bianche le mattonelle. Sono molto soddisfatto e anche i bambini ringraziano. Poi è l’ora dei gomitoli. Lavoro con Asha, dodici anni, la più matura di tutti, lavora tanto e fa un po’ da madre agli altri, è sempre sorridente e bellissima. C’è anche uno dei suoi cinque fratelli all’orfanotrofio, Raju. Mentre lavoriamo Asha mi chiede se mangio la mucca. Quando le rispondo di sì rimane contrariata e cerco di spiegarle che da noi è normale, ma lei non è convinta e rimane sdegnata alla notizia che si possano mangiare anche maiale, coniglio e persino il polpo. Parliamo del mare, nessuno dei bambini dell’orfanotrofio lo ha mai visto. Le altre volontarie, che hanno accompagnato Enoch e Goma al mercato per comprare la capra di montagna da sacrificare domani, tornano tirando l’animale per le lunghe corna affusolate. Improvvisamente tutti i bambini fanno spazio nel cortile, sistemano le sedie in fila e allestiscono uno spettacolo. Comincia la musica e prima che me ne accorga sei delle bambine stanno ballando una danza tradizionale. Mi incanto a guardarle. Poi è la volta di tre maschietti: Raju che è divertentissimo, Sudip che è molto preciso e Deepak che invece non sembra molto coordinato. I bambini ballano quattro canzoni e poi vengono ad invitarci a provare. Raju si mette a darmi lezione con una metodica impressionante, mi fa fare i passi uno a alla volta e dopo un po’ comincio ad andargli dietro. Finite le danze, Goma pronuncia un discorso di ringraziamento per salutare Jennifer, che partirà domani, la segna in fronte con la Tika rossa e le offre una sciarpa di seta, simbolo di buon viaggio. Jennifer è una signora molto buffa, ha sconfitto la voglia di volare a cinquantacinque anni ed ora che ne ha sessanta ha già visto tutti i continenti, da sola. Stasera il senso della famiglia di questa piccola casa fatta di nulla si avverte molto forte. Esco con le ragazze, ci fermiamo ad un Internt point per aggiornare amici e parenti e poi andiamo a bere un tè al masala insieme.
14 Ottobre
Alle sette tutti sono in giardino accanto alla capra già decapitata. La testa è appesa per le corna allo scivolo dei bambini e sulla carcassa vengono gettati secchi di acqua bollente per strappar via i peli, poi viene estratto un enorme stomaco e quando l’animale è fatto a pezzi mi rendo conto che non c’è molta carne. Dopo colazione Goma chiede a me e Marta di imbiancare il muro ingresso dell’orfanotrofio. Invece della vernice che conosco, mi fanno preparare un misto di cemento, malta, gesso e una pasta bianca che si scioglie subito. Non ci sono pennelli e usiamo delle spazzole simili a quelle da bucato. L’impasto è liquido e trasparente ed ho la sensazione di stare lavando il muro senza imbiancarlo affatto. Interrompiamo alle dieci per il pranzo e quando torniamo al lavoro il muro, asciugatosi, è diventato bianco. Stendiamo la seconda mano e poi una terza. Enoch e Goma mi chiedono se voglio dormire all’orfanotrofio da stasera, scusandosi per avermi mandato in hotel e spiegando che non era previsto che Marta rimanesse così a lungo. Chiedono a me e Marta di condividere la stanza ma a me dispiace invadere il suo privato così, d’accordo con tutti, decido di continuare a stare in hotel. Ottengo di trasferirmi nell’hotel di Marit e Susanne, che ha l’entrata a fianco dell’orfanotrofio ed ha acqua calda e lenzuola pulite. All’una vengo invitato alla fiera di Old Pokhara perché, dicono Goma ed Enoch, c’è bisogno di me, ma ancora non capisco la ragione. Andiamo in motocicletta: io e Khim, altro fratello di Goma, Enoch e un ragazzo che non conosco, Goma con suo marito, seduta in sella su un fianco con entrambe le gambe da un lato come si usava da noi negli anni sessanta. Il viaggio è allucinante, più volte rischiamo di schiantarci contro autobus contromano o mucche vaganti e per tutti i venti chilometri è un frastuono di clacson. L’area della fiera è una distesa a perdita d’occhio di gente e capre. Mi spiegano che Goma vuole comprarne altre due: una per i bambini ed una per la famiglia di Enoch. Ci avviciniamo ad un recinto e Khim entra dentro fra decine di animali impauriti. Goma indica quelle che le sembrano migliori ed il venditore le solleva per stimarne peso e prezzo, poi viene afferrata la groppa per misurare il grasso. Legano le corna a due grossi esemplari e me ne affidano uno. L’animale scalcia, non vuole saperne di camminare e mi faccio largo fra la folla trascinando la bestia che tiene le zampe puntate a terra. Viene chiamato un taxi, grande come la più piccola delle nostre utilitarie, e saliamo a bordo: Goma, Enoch, il figlio di Khim, l’autista del taxi, io e le capre! Durante il viaggio Enoch mi parla di come vengono gestiti i soldi e mi spiega che a parte Ottobre e Novembre non arrivano volontari e con i soldi racimolati adesso dovranno affrontare i lunghi mesi del monsone. Mi dice di capisre che ai nostri occhi da occidentali possa sembrare strano il loro modo di crescere i bambini ma che il metodo dell’orfanotrofio è il migliore che esista e che nessuno dei bimbi nepalesi ha il lusso di vivere così bene. Apprezzo molto la conversazione, mi viene data fiducia e riconoscenza e sono ancora più motivato. Al ritorno, con le altre ragazze, mi metto a lavare i bambini per fare loro il trattamento anti-pidocchi. Uno dopo l’altro si spogliano, lavo loro la testa, faccio riposare il prodotto tre minuti mentre lavo il corpo e poi sciacquo con gelide secchiate d’acqua. Li asciugo e li passo a Marta che con un pettine a denti fitti toglie uova e pidocchi, ce li hanno praticamente tutti. La doccia è una festa e tutti sono felici anche se battono i piedi a terra per il freddo. Alcuni bambini hanno sul corpo i segni del passato. Sagar ha sette anni ed ha vissuto dai due ai quattro anni da solo, vagando nei campi e dormendo nei fossi come un animale perché la madre lo ha abbandonato per risposarsi. I nonni lo hanno disconosciuto e, quando ha provato a tornare, lo hanno picchiato. Quando a Goma è stato segnalato il suo caso lo hanno trovato seminudo, dentro un paio di scarpe rotte più grandi del suo piede, ricoperto di fango e pericolosamente sotto peso. Adesso è così simpatico e sano che sembra impossibile, parla bene l’inglese ed è sempre sorridente. Dopo cena vado con le ragazze in un locale dove prendo il mio primo caffé da giorni e poi, finalmente, nel nuovo letto.
15 Ottobre
Alle cinque mi sveglia un violento acquazzone ed anche se non riesco più a dormire rimango nel letto fino alle sei e mezza. Per tutta la mattina io e Marta puliamo il bagno del secondo piano, quello all’aperto e tutti i vetri della cucina, così neri e incrostati che non si vedeva più attraverso. Quando finiamo c’è molta più luce in cucina e, via via che se ne accorgono, i bambini vanno a chiamare gli altri per mostrare la novità. Il tempo è cambiato ancora e splende il sole così decidiamo che, una camera alla volta, laveremo tutte le federe e le lenzuola. E’ un lavoro lungo, ogni pezzo richiede almeno tre secchi d’acqua pulita. La giornata scorre lenta, ho molto sonno oggi e la testa pesante. A fine mattina viene uccisa la capra che ieri ho trainato. Messa a cavallo di un tronco, viene cosparsa di incenso e poi decapitata con un colpo secco di sciabola. Osservo con rispetto ma non nascondo un po’ di disgusto. Per festeggiare anche questo sacrificio, tutti ricevono una nuova tika, me incluso. Alle quattro Goma invita le tre ragazze a fare shopping, anche loro infatti vogliono comprare un costume tradizionale per il Tika day, il decimo giorno del Dasain in cui ciascuno apporrà la tika alle persone più giovani della famiglia offrendo regali e soldi. Quel giorno tutti devono indossare qualcosa di nuovo e Goma ha fatto cucire per ogni bambina un nuovo abito. Ho un’opinione sempre migliore di questa donna, occorreva solo un po’ di tempo per capire che dietro ad un atteggiamento apparentemente freddo c’è un grande impegno per i bambini. Oggi sono arrivati anche i due figli di Goma che studiano in India, non sembrano molto felici di essere a casa e se ne stanno in un angolo col muso lungo a mandare messaggi col cellulare. Mentre le ragazze sono via rimango solo coi bambini piccoli ai quali faccio lezione di Inglese: prendo un libro di figure e faccio scrivere sotto ad ognuna il relativo nome. Sono tutti preparati e bravissimi, farebbero invidia alla maggior parte dei miei coetanei italiani. Al ritorno delle ragazze repariamo i letti con la biancheria pulita e dopo cena usciamo.
16 Ottobre
Per gran parte della mattina intratteniamo i bambini giocando a piegare la carta in barchette, aquiloni, pesciolini. Finalmente ho visto Kamal sorridere. E’ molto chiuso e cambia umore improvvisamente accigliando le folte ciglia nere. Non mi ha più chiesto di accompagnarlo a distribuire volantini, credo abbia capito che da solo ha più successo. Dopo essere scomparso con un gran foglio di carta, ritorna con un disegno bellissimo, lo mostra per una frazione di secondo e corre a nasconderlo. Poi mi chiama in camera sua ed estrae il disegno da sotto il cuscino. E’ un fiore di loto nel lago con lo sfondo delle montagne, mi spiega che Kamal in nepalese significa appunto loto. Dopo pranzo vado a tagliarmi i capelli: per un solo euro ho un’accurata rasatura a forbici della testa; ho la barba di una settimana ma decido di non tagliarla. Nel pomeriggio arriva il maestro di danza e con mia grande meraviglia Kamal mi chiede di colorare il suo disegno mentre lui ha lezione. Nel frattempo viene uccisa la terza capra. Le ragazze fanno la doccia ai bambini ed io mi occupo di pettinarli: mai visti tanti pidocchi in vita mia. Appena finito, faccio anche io il trattamento per sicurezza. Improvvisamente una pioggia fortissima allaga tutto e dalla grondaia Kamal srotola un lungo tubo di plastica che serve a convogliare l’acqua piovana in una cisterna. Ci raccogliamo dentro l’enorme cucina e i bambini sistemano le panche attorno alla grande stanza. E’ il compleanno di Bhumika e Tulasha, tredici e undici anni: la prima volta nelle loro vite che lo festeggiano. C’è una torta al cioccolato e le due festeggiate indossano una corona argentata di carta, siedono al centro della stanza e tutti i bambini cantano tanti auguri. Goma ha comprato due pelouches, mette loro una sciarpa di seta intorno al collo, appone la tika e con le mani offre ad entrambe un pezzo di torta. Io ho preparato due bigliettini di auguri con la carta e le ragazze hanno comprato degli adesivi luccicanti a forma di farfalla. Dopo il dolce viene fatto spazio e cominciano le danze. Alle salutiamo ed andiamo a cena fuori, niente dhalbat stasera! Scegliamo un ristorante Tibetano dove mangiamo i Momo, ravioli di cotti al vapore, ed una zuppa di straccetti di pasta e verdura accompagnati da una birra artigianale servita bollente dentro ad un contenitore di metallo chiuso e che va aspirata con una cannuccia, sempre di metallo. E’ una serata davvero piacevole.
17 Ottobre
Tika day! Già dal mattino presto c’è tanto fermento. Viene preparato un tavolino con le offerte alla dea Durga: banane, noccioline, frutta e un impasto di tintura rossa, riso e yogurt che servirà per il tika. Tutti corrono a cambiarsi: i maschietti indossano magliette e pantaloni nuovi, le femmine indossano il kurta arancione che Goma ha fatto cucire per loro. Anche noi volontari dobbiamo cambiare abiti. Le tre ragazze sono fantastiche in abiti nepalesi e Goma sembra molto onorata. La cerimonia inizia col marito di Goma che benedice la moglie ed i propri due figli. Poi è la volta di Goma che, dopo i propri figli, benedice tutti i bambini cominciando dai maschietti: sul tavolo ci sono delle piccolissime piantine bianche che sono state fatte crescere al buio. Dopo aver segnato la fronte pronunciando il nome del bambino ed augurandogli futuro splendente e salute, pone una piantina sul capo ed offre dei soldi, poi il bambino si volta verso il marito di Goma ed il rito si ripete. Tutti i bambini sono emozionati e prendono la cosa con molta serietà. Finito il loro turno, anche noi veniamo invitati a ricevere il Tika, è davvero un grande onore. L’augurio che ricevo da Goma è di poter ricevere da lei il tika dell’anno prossimo. Infine assumiamo noi volontari il ruolo di “untori”: ciascuno di noi ha preparato un mazzetto di banconote da cinque rupie e così ogni bimbo ne riceve venti da noi quattro. Musica, festa e colori sono ovunque per le vie di Pokhara, è tradizione che si ricevano visite dai parenti e che si faccia altrettanto quindi i bambini iniziano il giro delle case, soprattutto dei parenti di Goma. Quando tornano tutti hanno racimolato almeno duecento rupie, abbastanza per due cene al ristorante. Quando chiedo loro come li spenderanno, molti rispondono che li daranno a fratelli o sorelle che stanno a casa e sono poveri. Questi bambini sono fantastici. Nel pomeriggio torna la pioggia, tutto si allaga in un attimo e ci ritroviamo costretti al chiuso ad intrattenere i bambini come meglio possiamo. Aiutiamo i piccoli a cambiarsi e poi insegniamo loro come piegare i vestiti. In serata facciamo una passeggiata in paese dove tutti gli abitanti sono a cena fuori per la festa e le mie colleghe ricevono un’infinità di sorrisi e complimenti per i loro abiti. Domanavrò il giorno libero, con Marta.
18 Ottobre
Marta ed io noleggiamo uno scooter e ci avventuriamo fuori Pokhara. Guidare in Nepal è terrificante, non ci sono regole, le strade sono distrutte e spesso sterrate. Più volte devo uscire di carreggiata per scansare autobus, mucche o persone che si buttano in strada senza paura. Raggiungiamo il Tashi Palkhiel, uno dei villaggi rifugio costruiti dai Tibetani esiliati dalla propria terra dai cinesi. E’ così presto che non ci sono turisti ed è molto piacevole passeggiare per i silenziosi vicoli. Al tempio principale, il custode apre le porte apposta per noi. Il cielo è coperto ma la temperatura molto alta. I tibetani sono diversi dai nepalesi, il loro volto è liscio, più chiaro, e gli occhi sono piccoli ed allungati, ridotti ad una fessura per adattarsi ai forti venti ed al gelo tipici della loro terra di origine. Inoltre, hanno generalmente modi umili e pacati e sorridono sempre. Lasciato il villaggio ci dirigiamo alla grotta dei pipistrelli dove in una fitta foresta si apre un cunicolo nel terreno dal quale si accede ad una prima stanza. Con le torce e senza guida troviamo il passaggio per la caverna principale, per attraversarlo è necessario mettersi carponi. Dall’altra parte c’è un ambiente immenso, grande come una chiesa. Con le nostre piccole torce a malapena si riescono ad illuminare le pareti ma quando qualcuno arriva con una grossa lampada al neon restiamo a bocca aperta: migliaia di pipistrelli ricoprono la volta quasi completamente. Una volta fuori, controllo il serbatoio dello scooter e mi accorgo che è ancora pieno perciò proseguiamo verso i laghi, venti chilometri fuori Pokhara in direzione est. Il primo lago, il Begnas Tal, è immerso fra le colline terrazzate a riso. Molte persone stanno facendo il bagno. Pranziamo nel villaggio adiacente, dove la signora del ristorante sembra non aver mai visto uno straniero. Per cinquanta centesimi ordiniamo un ottimo piatto di Chowmein, spaghettini alle verdure diffusi in molti paesi asiatici. Per raggiungere il secondo lago imbocchiamo una strada in salita che lo scooter a malapena riesce a superare, davanti abbiamo un autobus stracolmo di gente appesa da ogni lato e seduta sul tetto, è impossibile da sorpassare e ci riempie di fumo nero costringendoci a fermarci per respirare. Valicata la collina si apre uno scenario da cartolina con il Rupa Tal, l’altro lago, sullo sfondo e la campagna di un verde abbagliante. Purtroppo a causa delle nuvole è impossibile vedere l’Himalaya. Tornati a Pokhara ci concediamo un’ulteriore escursione e visitiamo una cascata dal rumore assordante, dove un fiume impetuoso scompare sotto terra. Per il resto del pomeriggio ci rilassiamo in un bar del lungolago e poi raggiungiamo le altre due ragazze per cena.
19 Ottobre
Oggi è stata una giornata lunga, come fosse durata il doppio. Tutto è rallentato in Nepal, i modi delle persone, i tempi di attesa nei ristoranti, la reazione alle domande. Nella prima parte della mattina ho pulito i vetri delle finestre di tutto l’orfanotrofio, mi domando se i precedenti volontari lo abbiano mai fatto e perché né Goma né le altre donne si preoccupino della pulizia. Alcune camere erano completamente buie perché i vetri erano ricoperti di una patina di polvere impastata a pioggia e condensa. Dopo il dhalbat, ho preso una scopa di saggina ed ho fatto un nuovo giro di tutte le stanze per togliere le ragnatele. Piccola pausa caffé con Marta e poi di nuovo al lavoro coi bambini per districare lunghe e noiose matasse di filato. Nel frattempo sono arrivati altri due volontari. Jodi, dall’Australia, che Marta ha conosciuto a Kathmandu e con la quale dividerà la stanza, e Borja, dalla Spagna, che fa il fotografo e si trova qui principalmente per questo, infatti non presterà alcun servizio all’orfanotrofio, al quale però ha pagato una quota e dormirà a casa di Khim. Quando finisco con le matasse è ormai buio. In giorni meno frenetici come questo c’è un sacco di tempo per pensare, mi domando che cosa avrò davvero lasciato col mio passaggio, che cosa succederà a queste persone domani. Guardando questi bambini dai piedi neri, coi vestiti strappati e sporchi e la testa piena di pidocchi, riesco a vedere ugualmente tanta felicità. Sono sempre tutti sorridenti, amorevoli e senza pretese. Alcuni, come Rabina, sono piccolissimi ed assillanti, sempre attivi e giocherelloni ma quando si tratta di lavorare si trasformano in adulti, sono abili in ogni attività. I loro coetanei in Italia sanno a malapena la propria lingua, non hanno mai preso una scopa in mano e quando arriverà il momento di andare a scuola saranno eroi se sapranno già scrivere il proprio nome. Alle sette tornano Asha e Raju che hanno trascorso il weekend a casa. Hanno ancora la tika in fronte, gli stessi vestiti della festa e due facce serie e tristi sul punto di piangere. Hanno visitato le loro quattro sorelle dopo un anno e per un anno non le vedranno, sanno di stare bene in orfanotrofio, di poter studiare e mangiare, ma il pensiero delle miserabili condizioni dei nonni e delle sorelle deve essere devastante. Continuo a stupirmi del modo responsabile e metodico con cui tutti questi ragazzini eseguono i vari lavori domestici senza che nessuno dica loro di farlo. Dipak mi spiega che c’è una tabella dei compiti di ognuno appesa in cucina e che tutti sanno esattamente quando e cosa fare, mentre i piccolini sono esonerati da qualsiasi occupazione.
20 Ottobre
Sveglia alle sei, oggi io e Marta porteremo alcuni dei bambini a Sarangkot, un forte a 1600 metri di quota da cui si può ammirare la parte centrale dell’Himalaya. Il tempo qui è solito cambiare nel giro di pochi minuti e riuscire ad evitare le nuvole è un’impresa. Quando esco dall’hotel il cielo è terso e con Marta decidiamo che, visto che impiegheremmo almeno tre ore a piedi, non è il caso di rischiare di perdere il panorama, perciò ci facciamo chiamare un taxi e partiamo con le sole quattro bambine che non ci sono mai state: Bhumika, Tulasha, Sujata e Bipana. Quando il taxi comincia a salire si vedono già molte creste innevate, le bambine cantano felici in macchina. La strada è stretta e tortuosa e prima di arrivare ci imbattiamo in un paio di ingorghi alla nepalese dai quali sembra impossibile uscire. In una strada ad una sola corsia col precipizio da ambo i lati ci sono autobus e automobili che si scambiano rischiando di precipitare a valle. Scendiamo alla base dell’ultimo tratto per la vetta, ci aspetta una scalinata molto ripida, il sole picchia già forte. Lungo il percorso ci sono molte case ad una sola stanza, capre e galline escono ed entrano dall’unico ambiente. Anche le bancarelle sono numerose e compro un paio di plaid di pelo di yak morbidissimi. Giunti sulla vetta rimaniamo senza fiato. Il forte abbandonato si trova proprio sulla punta della collina e a trecentosessanta gradi si ha una vista che non posso descrivere a parole. A sud il lago Phewa e Pokhara in lontananza, a nord una vallata dal verde accecante dei campi di riso maturi che si impenna all’improvviso raggiungendo e superando gli ottomila metri. Da sinistra si vedono il Daulagiri, l’Annapurna e il Machapuchhre. E’ uno scenario così bello che nulla nei miei viaggi mi ha emozionato tanto. Ieri sera ho comprato una confezione di biscotti a testa, le bambine mangiano volentieri e poi si divertono a farsi fotografie a vicenda fra i fiori con la mia fotocamera. Hanno indossato i vestiti buoni e guardarle tutte composte e pettinate le fa sembrare occidentali, non fosse per i piedi spaccati e sporchi dentro a minuscole ciabatte di plastica. Niente taxi per il ritorno, torneremo in orfanotrofio a piedi. La via è lunga ma in discesa si affronta bene, troviamo diverse fontane dove riempire le bottiglie. In cielo ci sono tantissimi falchi e dal picco sottostante si lanciano una ventina di persone in parapendio. Passiamo dalla strada a lunghe scalinate di pietra immerse nella vegetazione e poi, più a valle, attraversiamo una distesa di campi di riso e misere fattorie con bambini che vengono a chiedere l’elemosina. Quando raggiungiamo il lungolago ci fermiamo al ristorante, le bambine sono eccitatissime, soprattutto Sujata, che è arrivata in orfanotrofio appena due mesi fa. Dopo la morte della madre, il padre l’ha portata in un ristorante dove è stata rinchiusa in cucina. Là dentro dormiva, mangiava e lavorava per pochi spiccioli come sguattera, senza mai uscire. La notte il padre andava e le portava via il guadagno per andare ad ubriacarsi. Adesso ha tredici anni e fino alla morte della madre è andata a scuola perciò anche con lei comunicare è facile. Bhumika ha lineamenti molto orientali, simili ad una balinese ma con la pelle scurissima e un viso da copertina. Bipana ci fa da guida mostrando un innato senso dell’orientamento e Tulasha si diverte a saltellare qua e là ignorando spesso la conversazione e parlando con sé stessa come è solita fare, non credo riuscirà mai a superare i suoi problemi comportamentali, purtroppo è molto strana e credo avrebbe bisogno di un assistenza specializzata. Al ristorante ordiniamo i momo e aranciata per tutti. Quando rientriamo siamo stanchissimi ma le quattro bambine si mettono subito al lavoro col filato, sbadigliando, ed io non posso fare altro che aiutarle. Improvvisamente Sujata viene da me e mi dice ‘Massi, when you go?’. Quando le dico che partirò sabato diventa serissima e dice una frase incredibile per una bambina di quell’età. Mi dice che io potrò guardare le foto ma lei non avrà niente da guardare. E così decido che domani andrò a far stampare le foto che ho insieme ai bambini per lasciarle a loro nella speranza che si ricordino davvero di me.
21 Ottobre
Erano in programma shampoo e doccia, ma il cielo si è coperto e la temperatura è decisamente troppo bassa per lavare i bimbi con l’acqua gelida. Così con le ragazze andiamo a Pokhara vecchia a fare la spesa: domani sera cucinerò pasta per tutti. Goma si è raccomandata di fare il sugo molto piccante, altrimenti ai bimbi non piacerebbe. Non avendo né olio d’oliva né formaggio, non posso fare una semplice salsa al pomodoro, non avrebbe sapore. Compro sei chili di fusilli, facili da mangiare con le mani, aglio, cipolle, peperoni, melanzane, pomodoro e peperoncini. Spero venga buona, la quantità è enorme. Nel pomeriggio esce il sole e possiamo lavare i bambini. Anche stavolta mi metto alla postazione pettine dopo shampoo, ma indosso un cappello per evitare i pidocchi, nonostante gli altri trattamenti ne hanno ancora moltissimi. Vado poi a ritirare le foto che ho fatto stampare e le distribuiscso fra i bimbi. Sono tutti felicissimi e ognuno è corre in camera a nascondere la propria foto sotto il cuscino o sotto il materasso. Da morire di crepacuore. Né Goma né Enoch sono presenti nel pomeriggio ed abbiamo l’orfanotrofio nelle nostre mani per diverse ore. Ci divertiamo un sacco a ridere e scherzare con i ragazzini, c’é un grande attaccamento ormai, tutti hanno imparato a chiamarmi per intero Massimiliano e mi fa un certo effetto. passo le ultime due ore della serata a far vorticare ragazzini di ogni taglia e misura sopra la mia testa e a giocare. Partire sarà dura.
22 Ottobre
I bambini non fanno altro che chiedere se è davvero questo il mio ultimo giorno. Mi metto a lavare tutti i piattini e le ciotole della loro colazione, faccio a mia volta colazione e poi mi dedico ai compiti con i bambini. Asmita è alle prese con una traduzione dal nepalese all’inglese, ma ha molte difficoltà. Nella piccola classe ci sono libri e quaderni ovunque, la moquette è ricoperta di pezzi di carta, matite, macchie di fango e colore. Samjhana mi insegna a scrivere il mio nome in nepalese, poi mi interroga per vedere se ho imparato. Sagar sta facendo i compiti di inglese con molta concentrazione e invece delle due pagine quotidiane continua oltre il necessario. Ad un tratto si ferma e diventa serio: la domanda a cui deve rispondere è “Quale è il mestiere di tuo padre?”. E’ un quaderno che riporta in alto ad ogni pagina domande ed esercizi preparati dall’insegnante, mi domando se non poteva pensare ad una domanda diversa sapendo la situazione. Cerco di spiegargli che sono domande generiche e che deve usare la fantasia, allora inclina la testa da un lato, come si usa per dire di sì da queste parti, e risponde che suo padre lavora in ufficio. A pranzo mi gusto il mio ultimo dhalbat, stasera infatti ci sarà la pasta, e poi con le altre volontarie prendiamo un’ora di pausa. Al mio ritorno continuo a giocare nel cortile con i bambini. Deepak mi chiede di andare con lui al negozio. Ma quale negozio? Dopo due settimane scopro che Goma ha acquistato un fondo poco distante dall’orfanotrofio dove le donne lavoreranno i tessuti, dove si tingeranno le stoffe e si prepareranno le borse. Deepak ha tredici anni ma sembra di parlare ad un ventenne. Camminiamo per una stradina sterrata e raggiungiamo un bianco edificio ad un solo piano. E’ appena stato completato e siamo qui per gettare acqua sul cemento fresco che ieri hanno steso. Goma mi spiega che questo è anche un primo passo per dare un’occupazione futura ad alcuni dei bambini. Torniamo in orfanotrofio, c’è un bel sole ed è un peccato rimanere in questo poco spazio così ci spostiamo tutti al parco sul lungolago per un’oretta ed alle sei comincio a cucinare. A disposizione c’é un focolare all’aperto con un treppiede, un’altra novità per le mie abitudini culinarie. Prendo una wok gigantesca e comincio con olio, un’intera testa d’aglio tritato, quattro cipolle, sei peperoncini, un chilo di melanzane e mezzo chilo di peperoni. Intanto la cuoca, disoccupata per la serata, mi osserva perplessa. Poi è la volta del pomodoro, del sale e della paprika. Il risultato é nettamente superiore alle aspettative, faccio assaggiare il sugo a qualche bimbo e sembrano entusiasti. La cottura della pasta però è una tragedia. Calcolo sei minuti e invece, per questa strana pasta, ne sarebbero bastati tre, perciò è stracotta. Sono molto deluso, ma tutti mangiano contenti e per la prima volta con la forchetta. Poco dopo, improvvisamente, tutti i bambini che sono soliti danzare spariscono e ritornano in costume. Le ragazze indossano lunghi abiti decorati di rosso e oro, collane e braccialetti luccicanti, anche se di plastica, e sono tutte truccate con tanto di rossetto. I ragazzi invece indossano un vestito bianco con un gilet di velluto bordeaux, un cappello ed una cintura azzurra di raso. Cominciano le danze e comincio a commuovermi per questa festa in mio onore. Infine, Goma porta un tavolo al centro della stanza, che era già stato preparato con una ciotola contenente la polvere rossa per la tika, candele ed alcune buste chiuse. Mi fa sedere al centro della stanza e fa un discorso di ringraziamento, tutti i bambini sono seduti intorno alla stanza. Un momento speciale. Goma mi segna con la tika in fronte, mi mette la sciarpa di seta di buon viaggio intorno al collo e infine, fra le risate di tutti, il cappellino tradizionale newari. Mi fa alzare e mi abbraccia stretto pregandomi di tornare. Tutti applaudono e cominciano a ripetere il mio nome. Infine è la volta dell’attestato di volontariato. Faccio il possibile per trattenere la commozione. Borja si occupa delle foto, per fortuna, e anche Marta sembra commossa. Infine tutti i bambini vengono a baciarmi ed abbracciarmi. Tutti tranne Sujata che è un lago di lacrime e si è nascosta in giardino. Penso che essendo l’ultima arrivata non è abituata a questo brutale e difficile avvicendarsi di persone a cui affezionarsi per poi vederle partire. Infine Sudip mi infila qualcosa in tasca, lo apro e questa volta però non ce la faccio a frenare le lacrime. Nel biglietto c’è scritto ‘Caro Massi, ho la tua foto e non mi dimenticherò di te, da grande voglio fare il dottore’. Poi arriva Bipana e mi da una foto tutta stropicciata di lei, Asha e Samjhana con sul retro la loro dedica. Kamal invece mi consegna il disegno che avevo colorato per lui. Prima che riesca a decidere di uscire dal cancello passano altre due ore. Accompagno i piccolini a letto, baci e abbracci per tutti e si conclude così questa esperienza indimenticabile. Piove, la mia tika si scioglie sul viso. Con gli altri ragazzi andiamo a bere un ultimo tè, ci scambiamo indirizzi e fotografie e ci salutiamo. Anche Marta mi ha preparato un biglietto, è stata un’ottima compagna di avventura, spero di poterla andare a trovare in Spagna.
23 Ottobre
Stamattina il cielo è sereno dalla fermata degli autobus si vedono le montagne. Ho il posto in prima fila e mi godo il panorama per la prima ora di viaggio, poi riesco a dormire per la maggior parte del tempo. Ci fermiamo un paio di volte per mangiare ed alle quattro, dopo oltre sette ore, sono a Kathmandu. L’albergo è in Durbar Square, il cuore della città. Poso le mie cose, mi lavo e approfitto delle ultime ore di luce per una passeggiata. La piazza è un capolavoro di templi ed architettura ma purtroppo, per quanto mi sforzi di apprezzarla e fare foto, pur essendo patrimonio dell’Umanità Unesco è come tutta la città una vera discarica a cielo aperto. Montagne di rifiuti ovunque, cani randagi malati, vacche e loro escrementi, motorini e macchine che si infilano in mezzo alla gente suonando continuamente il clacson. Cerco di seguire l’itinerario suggerito dalla guida, ma camminare è difficile. E’ un dispiacere perchè i vicoli ricchi di templi ed edifici un tempo straordinari giacciono nell’incuria totale. A chiudere il quadretto ci si mette un corvo che me la fa in testa. Ormai è buio e data l’assenza di illuminazione me ne torno in albergo.
24 Ottobre
Mi sveglio con l’impegno di provare a scoprire i lati positivi di Kathmandu. Alle sei sono già in Durbar Square. Magicamente è pulita e semideserta, nei vicoli nascosti si bruciano i rifiuti mentre anziane signore raccolgono la plastica. Il cielo è limpido, una rarità in questa che è fra le città più inquinate al mondo. Decido di prendere un Safa Tempo, piccolo motocarro elettrico promosso dal governo per favorire l’ambiente, e raggiungo Patan, una delle tre città stato ormai inglobata da Kathmandu. La Durbar Square di Patan è meravigliosa, pulita e senza turisti. Mi perdo fra le decine di templi di legno e mattoni, anche questo è un sito Unesco. Improvvisamente mi trovo sul limitare di una collina e voltandomi verso nord rimango incantato dalla vista delle vette Himalayane. Si vedono nitidamente il Ganesh Himal, il Cho Oyu e molto più ad est persino l’Everest range. Mi incammino verso Kathmandu a piedi, sono quattro chilometri lungo i quali ci sono diversi negozi equo solidali che voglio visitare. A mezzogiorno sono a Thamel, la zona turistica, che straripa di negozi di merci false, souvenirs, abbigliamento da trekking e soprattutto innumerevoli fricchettoni da tutto il mondo che sembrano aver scritto in fronte ‘io non voglio fare niente nella vita’. Non mi piace molto l’ambiente, mangio un piatto di Chowmein e vado alla residenza della Kumari, la dea bambina. Il palazzo di mattoni rossi ha un piccolo ingesso oltre il quale si apre un cortile pieno di balconi e finestre in legno intarsiato. La dea viene scelta fra bambine aventi le trentasei caratteristiche fisiche necessarie, le candidate vengono chiuse in una stanza buia fra suoni orribili e apparizioni di attori mascherati da bestie feroci. La bambina che resta calma passa alla fase successiva, e cioè riconoscere fra tanti i vestiti appartenuti alla Kumari precedente. Rimarrà in carica fino alle mestruazioni, poi la ricerca ricomincerà. Torno in hotel e mi carico sulle spalle l’enorme zaino che ho lasciato stamattina e prendo un taxi per Boudhanath dove si trova lo stupa più grande del mondo. La piazza è circolare e attorniata di edifici bellissimi e curati, colmi di fiori e sovrastati da bellissime terrazze panoramiche. Mi accomodo in un bar all’aperto al quarto piano e la vista dello stupa è superba. Lo stupa si compone da vari livelli, la base quadrata, una cupola fatta a ciotola di riso rovesciata, un cubo con gli occhi del Buddha e una guglia che punta al cielo sormontata da un immenso ombrello dorato. Mi rilasso con un tè e mi godo la vista, poi mi incammino verso Pashupatinath, sono due chilometri in discesa. Compro un samosa e mentre attraverso un ponte sospeso sul fiume Bagmati vengo attaccato da una scimmia che prova a rubarmi il cibo. Ci prova da ogni lato, poi scompare e aumento il passo, finché mi accorgo di averla proprio sopra di me. Riesco a superare l’agguato e raggiungo il luogo sul fiume dove si effettuano le cremazioni. E’ vietato l’ingresso ai non induisti, perciò osservo da lontano, guardandomi bene dal fare fotografie, e proseguo per l’aeroporto. Ho ancora molte rupie con me, le consumo acquistando tè ed incensi. Sono trascorse due sole settimane ma mi sento come fossi uscito dalla mia solita vita per molto più tempo. Sull’aereo ci sono pochissimi nepalesi, tutti con la tika in fronte, e tanti turisti di ritorno dal trekking. Mi tocco la fronte, la mia tika non c’è più, ma la sento come fosse ormai stampata per sempre su me.
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