Cinema

La Città Incantata

spiritedaway-train1(千と千尋の神隠し, 2001, 125′, Giappone). Oggi è il terzo ed ultimo giorno del ritorno al cinema di questo capolavoro del Maestro di animazione giapponese Hayao Miyazaki, un film che ha vinto una quantità di premi e che in molti hanno nel cuore per la poesia ed il carico di emozione che trasmette. C’è stato un gran parlare di questo evento perché non si tratta soltanto di un ritorno, ma di una edizione rinnovata, con piccoli inserimenti prima inediti (circa 6 minuti aggiuntivi) e un doppiaggio completamente nuovo. Non c’è nulla di peggio per un fan accanito come me, che conosco ogni dialogo e sospiro a memoria, che cambiare voci e battute, ed ero veramente scettico al riguardo, finché non mi sono accorto, leggendo su vari forum e guardando la versione in giapponese, che la cosa si è resa necessaria a causa della pessima traduzione dell’edizione originale. In effetti, erano molte le frasi prive di significato nel primo doppiaggo, alcuni fatti erano addirittura stravolti e qualche congettura narrativa intuita con eccessivo anticipo dagli stessi doppiatori, prima che dalla storia. Adesso, finalmente, si hanno le battute tradotte per quello che sono e cioè i versi di una lunga poesia traboccante di figure retoriche, metafore e significati.

Chihiro/Sen: A mio parere ha una voce accettabile, che non si discosta molto dalla vecchia, e mi sono abituato quasi subito. Adesso parla “alla giapponese”, iniziando quasi ogni battuta con “ecco” e rivolgendosi a Rin chiamandola “Signorina Rin”, pronunciando, come deve essere, Lin. La prima volta che vede il bianco drago nel cielo non dice alcunché, mentre il precedente doppiaggio le aveva messo in bocca la parola Haku, svelando anche a noi qualcosa che non c’era modo sapere così presto e che avremmo dovuto e voluto scoprire insieme a lei, che se ne accorgerà soltanto verso la fine.

Spirito Putrido: Nel precedente doppiaggio veniva indicato come “Spirito del Cattivo Odore”: può esistere una divinità del cattivo odore secondo voi? In quale olimpo bislacco? Infatti, è uno spirito certo, ma fin tanto che resta putrido non viene dato sapere di quale tipo di spirito si tratti e neppure Yubaba è in grado di capirlo. Nel momento in cui Sen si accorge che qualcosa lo trafigge, non annuncia più di aver trovato un manubrio, come nel doppiaggio precedente, ma “qualcosa di simile ad una spina”, infatti lei non può sapere, come noi che lo vediamo, di cosa si tratti. Invece, i traduttori del 2002 avevano pensato bene di svelarlo per lei facendole gridare a tutti che ha trovato appunto un manubrio.

Yubaba: E’ la voce più simile alla vecchia versione, ma in questa, ha un tono più autoritario e spaventoso che le si addice molto. Le battute sono molto simili alle precedenti, tuttavia pochi cambi di parole, naturalmente più fedeli, danno modo di capire meglio il suo modo di essere e di trattare Sen.

Senza Volto, Boo, Kamaji, Zeniba e gli altri personaggi, hanno poche differenze con l’originale, ma nel caso degli ultimi due, i dialoghi sono completamente nuovi e anche se può sembrare strano l’uso di parole desuete o termini inglesi (Boyfriend, Good Luck), si tratta proprio di parole precise scelte da Miyazaki stesso.

Se si accantona il lato affettivo del vecchio doppiaggio, che tutti abbiamo in testa e che ci suona familiare, possiamo facilmente capire che questo nuovo lavoro non è altro che un miglioramento, un valore aggiunto, un rinnovato rispetto per quei termini e quelle punteggiature che l’autore ha voluto utilizzare. La storia appare più comprensibile, le parole più giapponesi e quindi più preziose, il film più bello e più romantico. In questo mondo di divinità in vacanza per riposarsi dalle eccessive richieste degli umani, di fiumi sfrattati dall’espansione edilizia e dall’inquinamento, di esseri dediti al lavoro in modo meccanico e senza apparente scopo ma per il solo senso del dovere, si leggono decine e decine di messaggi morali, sociali, ambientali e psicologici. Il tutto, come comune ad ogni storia di Miyazaki, a carico degli adulti, colpevoli di aver abbandonato la memoria della loro infanzia e di aver ceduto alle tentazioni materiali: i genitori di Chihiro sono infatti i soli personaggi dei quali non viene mai mostrato un lato positivo, come invece avviene per Yubaba, col suo opprimente amore materno, o per il personale delle terme, che riconosce la bontà di Sen, e naturlmente per il Senza Volto, reso mostruoso da una logorante solitudine.

Sulle note della sigla finale, sottotitolata e tradotta, l’intera sala è rimasta composta ed attenta, fino all’accensione delle luci, a conferma che questo capolavoro oggi è ancor più capolavoro.

Cinema

La Grande Bellezza

Toni Servillo è Jep Gambardella
Toni Servillo è Jep Gambardella

Sono profondamente soddisfatto all’uscita dalla sala dopo la visione di questo lavoro di Paolo Sorrentino, in concorso al Festival di Cannes 2013,  non fosse per i soliti cafoni da multisala che non hanno potuto trattenersi dal sottotitolare ogni scena con commenti da salotto: Jep Gambardella, protagonista del film interpretato da un maestoso Toni Servillo, ne avrebbe descritto la maleducazione inquadrandoli in una traboccante descrizione meringata da colti aggettivi dal sapore vintage. E’ uno strano soggetto Jep, solitario intellettuale dallo spiccato cinismo, quasi si bea nell’altrui decadenza usandola come trampolino al proprio narcisismo che lui, arrogantemente, chiama sensibilità. Una sfilata di soggetti “difettosi”, personaggi quasi circensi simbolo di una fetta di società malata e reale verso i quali si prova compassione quasi dimenticando che, incontrandone nella vita reale, il giudizio sarebbe tutt’altro che lieve. Carlo Verdone nei panni di un fastidioso fallito che arranca al seguito di una gallina tremendamente brutta, dentro e fuori; Sabrina Ferilli, stavolta eccezionalmente brava, in quelli di una donna vittima della rozzezza del padre pervertito e di un ambiente burino del quale è ormai una componente fondamentale; Isabella Ferrari impersona una deprimente nullità il cui unico accessorio è la ricchezza materiale, completamente inutile perché accompagnata ad una totale vuotezza. Galatea Ranzi è una saccente scrittrice contro la quale Jep rovescia una scarica di verità verbali così violenta da demolirla e, infine, due parole in più sono da spendere per una stupefacente Serena Grandi che, seppure con un nome di scena, interpreta nient’altri che sé stessa risultando il fulcro riassuntivo dell’intera pellicola: una donna sfasciata al limite dell’umano che rifugge il proprio relitto circondandosi di marionette griffate. La vera bellezza di questo film, non grande ma immensa, è la fotografia. Ogni inquadratura è un arazzo, ogni fotogramma un dipinto, ogni frame un poster. La storia affascina da subito proprio grazie alla luminosità delle immagini, ai colori, al meraviglioso documentario di una Roma che sembra perfetta e che via via va incrinandosi al crescere della percezione dell’amarezza della trama. Sconvolge anche la presenza completamente  sgretolata della religiosità:  giovani suore mai così umane e peccatrici,  reverendi viziosi e stupidi, idoli e santità ridicoli e imbarazzanti. Mi resta una gran voglia di rivederlo ed annotare le tante frasi forti e impattanti che costellano un testo, a parer mio, bellissimo.