Dialoghi di Casa Manilo

Loredana e Vittorio

(mentre leggi, ascolta “Deeper and Deeper, Madonna”)

1994

È un’imprecisata domenica d’autunno, quando vengo svegliato da un ronzio che sembra provenire dalla cucina. Semi addormentato, non riesco ancora a capire di che si tratti. Casa ha le porte vecchie, di quelle vuote che chiuderle o meno non fa differenza, si sente comunque tutto. Anche i muri sono sottili, tanto che risulta impossibile dire qualcosa di nascosto. Vado in bagno e, con la finestra aperta, sento le voci di mamma e papà in cucina, anche loro a finestra aperta, che armeggiano con qualcosa punzecchiandosi come al solito. Non capisco le frasi intere ma solo alcune parole chiave qua e là. Comincio ad essere più sveglio e provo ad immaginare cosa sta accadendo. Abbiamo avuto ospiti ieri sera, a cena. Amici dei miei, di quelli che si palesano una, due volte all’anno. Di quelli che meglio farli venire il sabato o il venerdì, così da tenerli separati dai familiari, che invece vengono la domenica, perché “non si intonano”. A cena, i miei hanno preparato una grossa quantità di pesce e verdure lesse, disposti nei soliti vassoi di metallo ovali: brutti e rumorosi, sembrano le gavette del rancio al fronte nella prima guerra mondiale. Ci perdiamo sempre nei dettagli a casa nostra: non esiste alcuna etichetta. Sul linguaggio meglio soprassedere. Mio padre, trasteverino poco istruito, è solito dimostrare il massimo del calore spedendo tutti ripetutamente laggiù, in quel paese tanto caro al suo Giggi Proietti. Mamma, rassegnata (più o meno) ai modi di papà, tampona prendendo in prestito educazione e raffinatezza, goffe ed incomplete, dalle case nelle quali presta servizio come infermiera o dalle sue amate fiction televisive. Guai se la tovaglia è macchiata o non stirata, poi però nessun problema se i bicchieri sono scompagnati e i coltelli sono quelli da mille lire, col manico in plastica marrone e un po’ bruciacchiato. Ieri sera infatti, la maionese per il pesce è stata servita, al solito, in una tazza da tè col cucchiaio da minestra. Quanto odio il rumore di quei cucchiai giganti di ferraccio, brutti, col manico decorato a pallini in rilievo, che sbattono dentro le tazze da colazione! Insopportabile, ma pazienza, ormai tanto è la routine, ed è la stessa musica anche in quella sera a settimana in cui ceniamo con latte e biscotti: par d’essere in un negozio di campanelli! Ieri sera però qualcosa è andato storto: la maionese di papà non è riuscita e nella tazza c’era un amalgama giallastro con striature d’olio che tutto poteva sembrare meno che appetibile. Ebbene, dopo un dibattito fin troppo lungo ed aver messo via quel fallimento, la serata è proseguita nella normalità, con la pesantezza e la cafoneria dei nostri ospiti che, con le loro domande inopportune ed i loro aneddoti privi di interesse, superavano di gran lunga la maleducazione di papà. Questo però, lo avrei scoperto solo più avanti negli anni, mentre avrei dovuto immaginare subito che il “Maionese-gate” non sarebbe rimasto archiviato a lungo.

Esco dal bagno, infilo i pantaloni e scendo le scale. Penny, il nostro cane, viene verso di me e persino nella sua espressione mi sembra di notare un po’ di rassegnazione. Raggiungo la porta della cucina, col ronzio che aumenta, e una volta aperta eccoli lì, tutti e due. Non mi hanno sentito, entrambi di spalle ai due angoli opposti della stanza: mamma indossa il solito vestito da casa a fiori verdi e viola, sbracciato, ma con ai piedi calzini di lana e ciabatte con la suola di sughero. Papà ha una maglia tremenda di Missoni che ha preso coi punti del gasolio all’Autogrill, di quelle con tremila colori intersecati senza logica che se la guardi più a lungo di cinque minuti rischi un attacco epilettico o un trip emozionale; per fortuna quella maglia è stata subito declassata a “maglia da casa” e non ha mai lasciato queste mura. Il tavolo, al centro della stanza, è una vera esposizione di bicchieri di vetro di ogni genere, alcuni con personaggi dei cartoni animati stampati sopra, una volta contenenti Nutella, ma tutti accomunati dal solito contenuto e inframezzati da decine di gusci d’uova.

Mamma si volta – Massimilianino! Che ti s’è svegliato? – mi chiede, come se non mi avesse già messo un nome abbastanza lungo, e in quel suo personalissimo italiano, quasi perfetto, ma costellato di termini e costruzioni tutti suoi: un po’ pisani, un po’ pratesi e un po’ inventati.

– No, mamma, ma che state facendo? – chiedo, più che altro per conferma visto che mi sembra evidente

– Semo a fà la maionese… tu madre è fissata co’le fruste nun vole capì che oggiggiorno se usa er “minipime”! Nu je va bene mai’n ca(…) de quello che je porto io! – risponde papà. Anche il minipimer, come la maglia e come decine di altri oggetti più o meno utili, è stato preso coi famosi punti del gasolio all’Autogrill.

Mamma – Bah! Bah! Perché finora con cosa l’hai fatta? E allora? Ma fammi ride, costì

E via andare, uno col frullatore a immersione, nuovo e moderno, l’altra con quello a due fruste, che credo sia arrivato in casa ben prima di me. Credo fosse bianco una volta, e che avesse anche alcuni accessori ora smarriti, me lo ricordo appeso con tutto il set nella cucina della vecchia casa. Adesso è giallastro, crepato e col cavo elettrico rammendato svariate volte, ma mamma non se ne separerebbe mai.

Papà – E allora falla! Forza! –

Mamma – O te allora? Come mai ancora non l’hai fatta? Eh? Eh? Eh? Tu’schiantasse! – Eccolo! Il suo più grande modo di offendere, che poi, detto così, non c’è neppure da prendersela perché non si capisce manco chi è che dovrebbe schiantare, quale terza persona immaginaria dovrebbe fare le spese di un simile anatema.

Papà – Nun me vié perché me stai a da’ fastidio... Levete, vedrai che me viè subbito! –

Mamma – Bah! Bah! Vedrai se mi dai sempre noia e mi sposti le cose è certa che un mi viene! Levati te costì, che pigli mezza cucina! –

E via andare. Vabbè, penso, ora prendo qualcosa per colazione e mi levo di torno, prima o poi gli passerà la voglia. Afferro una fetta di ciambellone da sopra la stufa in ghisa, e mi volto per andarmene quando invece…

– A’ Massimiglià… va’n po’ a vede ndér pollajjo sì’cce stanno du’ova, che l’amo finite. Forza! –

Sbuffo, ma vado. Penny mi segue, come sempre. Entro nel pollaio vuoto, tutte le galline sono già in giro, meno una, che invece sta nella cassetta di legno, di quelle da frutta e piena di paglia, pronta a fare il suo uovo. La sposto, e sotto di lei ce ne sono tre. Una ha uno scarabocchio fatto a penna sopra: è l’uovo che mamma lascia sempre perché, secondo lei, serve alle galline per tornare a fare le altre sempre lì, invece che “di lì e oltre” (in giro). Un uovo civetta, una sorta di istruzioni per l’uso formato gallina, che fortunatamente nessuno ha mai pensato di applicare in bagno, in formato persona. Prendo quindi le due uova fresche, il che, misteriosamente, significa calde e appena fatte,  e mi incammino verso casa.. oppure… no. Mi fermo, torno indietro, e rimetto le uova sotto la gallina. Ma sì.

Torno in casa e annuncio che non ci sono uova stamattina. In un attimo, tutto si ferma. Tutti e due mollano i rispettivi utensili sul posto e scompaiono. Papà al piano di sotto, nella sua falegnameria, mamma nella stanzina-lavanderia, oltre il giardino. Rimango solo, in quella cucina impregnata di puzza d’uovo e ricoperta di schizzi che sembra abbandonata in tutta fretta durante un terremoto. Decido di sparire anche io, nel bosco con Penny. Mai più si è parlato di quella sfida, ho semplicemente visto comparire, di volta in volta, le rispettive maionesi sul tavolo, preparate da l’uno o dall’altra, in totale solitudine e segretezza, e senza mai rivelare con quale arnese. Solo molti anni dopo mamma si sarebbe fatta sorprendere col minipimer in mano, ma per frullare un minestrone, mai per una maionese!

La cucina è cambiata molto, ma conserva ancora oggi, così come l’intera casa, quel magico strato di voci e di odori sospesi a mezz’aria, come uno strumento musicale invisibile che suona soltanto se attraversato o respirato, e che ogni giorno, in qualsiasi punto, mi ripete, rinnova, risveglia e racconta gli aneddoti e le conversazioni di una vita trascorsa qui. Come potrei mai lasciare questo luogo?

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Dialoghi di Casa Manilo

Silvia

(mentre leggi, ascolta “I’ll be around – Empire of the Sun”)

Agosto 2019, appartamento sotto

Siamo tutti in veranda mentre arriva Silvia, la nostra veterinaria. Entra con l’auto nel cancello e parcheggia davanti a noi. Trattengo Hela, la nostra pinscher, mentre il buon vecchio Birillo, con la flemma che lo contraddistingue, si avvia lentamente fuori casa e, scesi i due scalini con estrema cautela, procede verso Silvia, scodinzolando.

«No! Ma guardate com’è, ha una fibra questo cane… incredibile» dice Silvia, accarezzando Birillo sulla schiena. Sembra quasi avere un ripensamento, quindi le chiedo di illustrare a noi tutti il quadro della situazione da capo, in modo che possiamo ascoltarlo nuovamente e ritrovare la determinazione che, fino ad un attimo prima, pensavamo di avere.

«Quando il cane è arrivato da me, l’altro giorno, ho pensato ad un tumore, una metastasi, qualcosa del genere insomma» spiega «ma una volta apertagli la bocca, per capire l’origine del gonfiore spaventoso, ho capito che si trattava di un’infezione da piorrea in fase molto avanzata, che probabilmente gli è arrivata anche alla testa e che, quasi certamente, è responsabile dell’attacco epilettico avuto la settimana prima. Non fosse un cane di quasi vent’anni, una soluzione poteva essere l’asportazione di tutti i denti, la ricostruzione della gengiva e tanta, tanta pazienza e farmaci. Come vi ho già detto però, sottoporlo a tutto ciò per sperare in un prolungamento della vita di appena qualche mese, oltretutto con una mutilazione, non è consigliabile”.

Non ancora soddisfatto, spero che ripeta quanto mi ha già detto allo studio, due giorni prima, per assicurami di aver capito bene, e infatti… «Gli antibiotici che sta facendo sono fortissimi, è sgonfiato ed apparentemente a voi sembra stare bene, ma ha comunque dolore, un dolore che con ogni probabilità continuerà a crescere, potrebbe portare a nuovi attacchi epilettici, febbre, o addirittura alla frattura della mascella. Penso che abbiate preso la decisione giusta: regalargli un fine vita dignitoso qui, a casa sua, circondato dalla sua famiglia, ad un’età molto avanzata e raggiunta in piena forma, non è altro che un gesto d’amore»

[…]

Prima che Silvia se ne vada, le faccio fare un giro della casa, andiamo sopra e le mostro l’appartamento che affittiamo ai turisti. Si sofferma a guardare tutte le foto dei miei genitori appese, scelte appositamente fra le più buffe, e poi ci spostiamo in terrazza. «Sono venuta soprattutto per gratitudine verso la tua mamma, oggi, e se non sbaglio è anche l’anniversario della sua morte?”, ricorda Silvia correttamente. “Immagino come tu possa stare. La tua mamma mi ha sempre sostenuta, aiutata e consigliata, fu la mia prima cliente quando ho aperto lo studio, trent’anni fa ormai. Adesso che sono qui a casa sua, tua, ho la conferma di quello che ho sempre sostenuto. Pensala come vuoi, ma sono convinta che ci sia una particolare energia in questo posto. Un’energia che vi ha sempre mantenuti felici, che ha permesso alla tua mamma di affrontare una lunga malattia senza sintomi o dolore, che ha portato Birillo, quindicenne e claudicante, a ritrovare una seconda giovinezza e vivere ancora quattro anni in piena forma. Ti voglio ringraziare per avermi permesso di fare questa cosa in questo modo e in questo posto, non pare, ma anche se pratico decine di eutanasie, questa è stata molto particolare anche per me»

(alcuni giorni dopo)

Non appena l’auto di Silvia ha lasciato il cancello, ho ripassato mentalmente quanto appena ascoltato, ma in modo molto distaccato e rapido, solo per memorizzare, non avendo la testa abbastanza libera, in quel momento. Quindi, sono entrato in casa, e solo oggi torno a pensarci, mentre scrivo questo testo.

Sicuramente Silvia ha sempre avuto una forte ammirazione per mia madre, non mi riesce affatto difficile crederlo, e con molta probabilità mia madre, a sua volta, ha avuto un gran carattere ed una spiccata personalità, tali da mantenersi forte, positiva e sorridente durante la sua malattia. Effettivamente poi, Birillo non si trovava nel pieno della forma quando ha traslocato in questa casa, ed ha avuto un cambiamento evidente ed inequivocabile fin da subito. Abbiamo decine di filmati e foto che lo ritraggono mentre galoppa, con le orecchie che sventolano per aria e la lingua da un lato, con quelle sue gambe mezze storte che, a due a due appaiate, avanti e indietro, lo sospingono con forza fino a buffe derapate in curva o goffe inchiodate. Il potere della campagna, dicevamo noi, o una nuova felicità. Non so se Silvia si riferisse a questo, sono molto più solito soffermarmi sui problemi, sulle difficoltà o le preoccupazioni. Le cose belle, più frequentemente, sono gli altri a portarle alla mia attenzione, e solo allora le vedo davvero. Probabilmente capita un po’ a tutti, e non perché la si sottovaluti, ma perché spaventa un po’ constatare la felicità, per timore di intaccarla. Quindi, se lei  parlasse di fortuna, di caso, di positività, di forza, o di tutte queste cose insieme, io non lo so. So per certo che rientrando in casa l’altra sera, con Birillo addormentato per sempre, nel suo materassino, ho decisamente sentito serenità, pochissima tristezza. E che esattamente un anno prima, in uno scenario pressoché identico, ho provato la stessa serenità, e, anche allora, pochissima tristezza. Per un anno intero, ho pensato di essermi inaridito al punto da non saper provare abbastanza tristezza, da non riuscire a piangere a sufficienza. Adesso però, ripensandoci, la completa serenità con cui ho potuto accompagnare sia mia madre che Birillo, e la certezza di aver dato tutto, ricevendo ancor più di tutto, devono aver reso inutili sia pianto che tristezza. Sì, credo di aver capito. Dev’essere proprio questo, questo senso di pace, anche nel dolore, che Silvia chiama energia.

Birillo

 

Funny Life

Goodbye to the Y (che sì, fa rima)

Quanti hanno ricevuto soprannomi? Quanti si sono visti affibbiare titoli e appellativi assurdi, soprattutto durante l’adolescenza, da amici e conoscenti in cerca di approvazione ed autorità all’interno di una compagnia di ragazzini dalla mentalità collettiva e priva di individualismi? Ci hanno provato, con me, svariate volte, ma sono tutti caduti nel vuoto, nell’indifferenza, nell’insuccesso. E meno male! Alla soglia dei quaranta, ci sono alcuni poveretti che, non essendosi mai allontanati dalla realtà di paese, ancora portano il peso di epiteti atroci e affatto felici come “Trauma”, “Mafia”, “Rotolino”, o peggio. Io me lo sono messo da solo, quando ancora ero l’unico a possedere una connessione internet ed affacciandomi al mondo delle chat, Mirc per la precisione, decisi di combinare nome e cognome per ottenere una parola che mi ricordassi facilmente. E quella “Y” sembrava così internazionale, così figa, che non poteva mancare nello scrivere il mio nome tronco, che tutto intero nessuno, o quasi nessuno, ha mai voluto usare. Ultimamente ho provato un po’ di fastidio, quella “Y” mi stava sempre più antipatica, era diventata infantile, becera, buffa, inutile. E così, ho deciso di salutarla, per sempre. Oltre vent’anni di navigazione web, di tracce lasciate su social network, forum, siti ed iscrizioni, non sono stati facili da tracciare, ripercorrere e ripulire. Ma forse ci sono riuscito, anche se con molta fatica. Perciò addio, cara “Y”. Non mi servi più. E sarò masmassi, proprio così come si dice e si addice.