Qualche settimana fa, grazie ad un servizio in TV, ho scoperto l’esistenza di questo affascinante percorso escursionistico dalla storia bizzarra e folle. Una strada in pietra a secco costruita nel XVIII secolo dall’Abate Vandelli su commissione del Duca di Parma per collegare la città ducale con Massa, ambito sbocco al mare appena ottenuto dal Granducato. Non potendo attraversare gli Stati confinanti ed avendo come unica opzione un territorio estremamente limitato ed impervio, l’Abate Ingegnere fu costretto ad inventare un sistema di costruzione e misurazione inedito, arrivando a realizzare un’opera imponente e robusta che fu in grado di consentire il transito di carrozze, carri e persino convogli estremamente pesanti trasportanti marmo di cava.
Raggiunto il piccolo abitato di Resceto, in provincia di Massa ed a soli dieci minuti dal capoluogo, la strada termina in un piccolo parcheggio dove arriviamo intorno alle 9:30. Notiamo subito il cartello del CAI e ci incamminiamo sull’unica strada che lascia il parcheggio, asfaltata ancora per pochi metri prima di diventare bianca. Solo cinque minuti di cammino, e la stretta valle solcata da un profondo canalone si apre mostrando tutta l’imponenza dei monti che la abbracciano. Davanti a noi serpeggia bianchissima la Via Vandelli, come una candida Muraglia Cinese, aggrappata a sbalzo su pendici quasi verticali. Gran parte del percorso è su fondo sassoso-ghiaioso rendendo piuttosto faticosa l’ascesa, noi non abbiamo portato i bastoni da trekking ma mi sento di consigliarli, soprattutto per la discesa e la presa instabile degli scarponi sulla ghiaia e le pietre bianche sconnesse. Superiamo un ponticello in ferro ed attacchiamo i primi dei numerosi tornanti che ci attendono, ritrovandoci presto dentro una fitta nebbia, forse nuvole basse, poi, immediatamente prima di raggiungere il primo traguardo della giornata, fuoriusciamo dal bianchissimo vapore e scopriamo un cielo azzurro e sereno al di sopra di un mare di nebbia e nubi dal quale spuntano solo le cime dei monti circostanti. In poco meno di sei km di cammino abbiamo coperto mille metri di dislivello e raggiunto la Terrazza Vandelli, uno spiazzo verde mozzafiato a cavallo dei due versanti delle Apuane e dal quale si riesce a vedere sia in direzione del mare che in direzione dell’entroterra toscano.
La Terrazza Vandelli
Si ha quasi la sensazione di fluttuare su di un tappeto volante sopra ad un mare lattiginoso, ma mi dicono che in giornate terse si riesce a vedere dalla Corsica alle Alpi Marittime, dagli Appennini oltre Firenze alle Colline Metallifere. Proseguiamo alcuni metri nel versante opposto oltre la terrazza e raggiungiamo il Rifugio Nello Conti, 1442 metri di altitudine, purtroppo chiuso. Usufruiamo ugualmente dei tavolini e dell’acqua potabile a disposizione per il pranzo, affacciati a strapiombo sulla bassa Garfagnana. Il rifugio è aperto nei weekend dal 15 Giugno al 15 Settembre. Dopo pranzo, superata ancora una volta la Terrazza, raggiungiamo in 45′ il Passo Tambura, a 1620 metri s.l.m: è qui che la Via Vandelli raggiunge il suo punto di massima elevazione e si dirige a Nord Est in direzione dell’Appennino Parmense. Da qui è inoltre possibile proseguire in direzione della vetta del Tambura per poi discendere dal versante settentrionale e, in un circuito ad anello che richiede in tutto 8/9 ore, ritornare a Resceto, ma la brevità delle giornate di Novembre non ci permette di proseguire oltre e così torniamo sui nostri passi, percorrendo un totale di 15km in circa 4h 30′ al netto delle soste.
La Via Vandelli
E’ un percorso indicativamente adatto a tutti, un po’ di fiato ed una buona resistenza alla salita costante premiano l’escursionista con paesaggi e panorami di struggente bellezza e rara genuinità in un silenzio assoluto e avvolgente. Alcuni punti nel tratto compreso fra la terrazza ed il Passo Tambura richiedono maggiore attenzione a causa del suolo franoso e del selciato spesso molto spesso, a parte questo non ho notato pericolosità particolari.
Estate 2015, tre soli giorni di mare! Non sono riuscito a fare di meglio quest’anno, ma i tre giorni trascorsi a Baratti a inizio Settembre secondo me valgono quindici giorni in Versilia. Amo la Toscana, la mia regione, ma dalla zona in cui vivo (appenino pratese) è molto faticoso ed impegnativo raggiungere un mare che accontenti le mie esigenze di tranquillità, pulizia e relax. Versilia e Riviera Romagnola sono le destinazioni più vicine, ma preferisco fare a meno del mare che partire verso spiagge attrezzate ed affollate bagnate da mari opachi e noiosi. Con appena mezz’ora di guida in più, si arriva in Liguria oppure sotto Livorno, dove il mare comincia ad assomigliare all’idea che ne ho io. Baratti, scoperto solo quest’anno, è un vero paradiso: si tratta di una baia tranquilla e selvaggia con al centro una spiaggia scura e ferrosa, ricca di resti etruschi, e con alle estremità sentieri panoramici che conducono a luoghi più segreti ed incontaminati. Verso nord, dal piccolissimo abitato di Baratti, un sentiero brevissimo e pianeggiante conduce a Cala Pozzino, una piccolissima spiaggia sassosa che custodisce un mare dal fondale ricco e trasparente. All’altro estremo della baia troviamo il porticciolo di Baratti, superato il quale si trovano rispettivamente il Ristorante Canessa e Canessa Camere, dove ho soggiornato. Le quattro camere disponibili sono direttamente sul mare, ciascuna provvista di balcone attrezzato a meno di dieci passi dall’acqua. Alba e tramonto trasformano questa sistemazione già ottima ed economica in qualcosa dal lusso inestimabile. Da qui partono i sentieri per Populonia Alta (40′), Buca delle Fate (1h 10′) e Piombino (3h). Almeno in Toscana, e per il mio gusto, io non ho trovato finora luogo più bello e soddisfacente di questo, mi auguro che l’Ente Parco che ne tutela la conservazione storica e naturalistica, continui ad impedirne la trasformazione e che resti sempre tutto così com’è: un paradiso
Lorenzo ed io all’Arrivo a Montepiano (primo giorno)
Anche quest’anno sono sopravvissuto al “Da Piazza a Piazza – una gita nel passato”, camminata annuale che, sul crinale dei monti, circuisce la valle del fiume Bisenzio nel territorio della Provincia di Prato. La passeggiata, di particolare lunghezza (circa 77km secondo il mio GPS), ha avuto origine da una scommessa fra due Pratesi un po’ burloni che vollero dimostrare di poter andare da una piazza all’altra della città senza attraversare il fiume Bisenzio. Sebbene in direzione opposta all’originale, il percorso è lo stesso di allora e si è appena conclusa la trentunesima edizione, la settima per me.
La partenza è alle 7 del mattino dal quartiere Santa Lucia di Prato, dove, indossata la pettorina numerata, si sale subito il colle Malaparte, sulla cui sommità, raggiungibile in una quarantina di minuti, riposa dal 1957 lo scrittore pratese dal quale prende il nome. Apposto il primo timbro sulla pettorina, si procede nel bosco verso la Collina di Prato, per poi affrontare la temuta salita verso i Faggi di Javello, la cui porzione denominata “Pietraia” spaventa ogni anno anche i più allenati per pendenza e lunghezza. Al termine della salita e con la lingua a terra, incontriamo un piccolo ristoro gestito dalla VAB (Vigilanza Antincendi Boschivi), dove troviamo frutta, dolci ed un rifornimento idrico di acqua e succhi di frutta. Il tratto successivo è molto suggestivo sia per l’imponenza dei faggi spesso avvolti dalla nebbia o dalle nuvole, che per la presenza di alcuni monumenti ai caduti della Seconda Guerra Mondiale. Non si incontrano particolari difficoltà o salite fino al ristoro successivo, dove ci attendono crostini di salsiccia e salumi, uova sode, formaggi ed altre delizie e dove, apposta la firma sul registro, comicia la salita denominata “Straccalàsino”, che in dialetto locale significa sfianca, sfinisci, stanca l’asino. al termine della salita, sul crinale dei monti, incontriamo ed imbocchiamo il sentiero GEA 00. Questo Sentiero, la cui sigla sta per “Grande Escursione Appenninica”, ha origine sui monti della Verna nell’Aretino e conduce in Liguria abbracciando Casentino, Mugello, Appennino Tosco-Emiliano, Montagna Pistoiese, Garfagnana e Lunigiana. In questo tratto, è un sentiero ampio e pulito che segue un crinale ricoperto da un fitto bosco che talvolta si apre ad ovest permettendo viste mozzafiato in direzione della Valle del Limentra e dell’Abetone. Il tratto termina al Rifugio Pacini, in località Pian della Rasa, dove ci attende un piatto di pasta, un timbro sulla pettorina ed un meritato riposo, per quanto mi riguarda senza scarpe. A questo punto, l’argomento sulla bocca di tutti è uno soltanto: il temuto Monte Zucca, che dopo un’ora di cammino dal Rifugio Pacini, minaccia la resistenza di tutti con la sua interminabile salita dalla pendenza crescente e priva di curve, un momento in cui regna il silenzio assoluto fra gli escursionisti. A spingere i piedi, sui cui gravano ormai quasi trenta chilometri, è il pensiero del ristoro successivo, che ci aspetta proprio oltre il monte Zucca, all’interno del Tabernacolo di Gavigno. Qui troviamo ogni anno una deliziosa porchetta, pane e pomodoro, formaggi, vino e tanta allegria: al primo boccone il monte Zucca è già dimenticato e la mente volge al Monte delle Scalette, ultima salita della prima giornata di cammino. Lasciato il Tabernacolo, si sale subito in un bosco via e via più rado all’interno di un sentiero serpeggiante e tavolta incastonato fra le rocce denominato Roncomannaio, fino ad incontrare una parete di roccia bianca sulla quale trova posoto un ripido sentiero a zig-zag che, non fosse per l’irregolarità dei gradini, sembrerebbe appunto una scalinata. Dopo aver calpestato per alcuni metri il suolo Emiliano, rientriamo in Toscana e raggiungiamo “Quelle della Macedonia”, nome dell’ultiomo ristoro, dove un gruppo di volontarie prepara dal giorno prima montagne di macedonia, niente di più perfetto a questo punto della giornata. Scesi quindi fino a Montepiano, si raggiunge l’arrivo del primo giorno. In moltissimi si fermano per la notte nelle strutture locali o si organizzano per il campeggio, io fortunatamente riesco sempre a rientrare a casa dove dopo una doccia che sembra un’estasi, crollo distrutto in preda al dolore muscolare ed alla febbre da sforzo, che so essere ormai parte del gioco. Alle sei e mezza, io e Lorenzo, mio compagno di avventure di questa edizione e per la terza volta, siamo già a Montepiano per ripartire. L’aria è fresca e la luce meravigliosa, ma i primi passi sono quelli che più ricordano le fatiche del giorno precedente ed occorrono alcune centinaia di metri prima di scaldare i muscoli e sopportare i vari doloretti. Superato un breve tratto boscoso in saliscendi, si raggiunge la strada Montepiano-Barberino de Mugello, e la si segue fino al Parco Memoriale della Linea Gotica, dove imbocchiamo un tratto di strada sterrata molto ampia, solitamente cosparsa di pozzanghere di grandi dimensioni. E’ un tratto piuttosto monòtono, sicuramente il meno entusiasmante dei due giorni,e quello con meno variazioni, ad eccezione dell’ampia praterìa che circonda la fattoria de “Le Soda”. Il primo ristoro si trova a circa tre ore di cammino dalla partenza ed è eletto quasi all’unanimità come il migliore dell’intera manifestazione: a Montecuccoli infatti ci attende una grigliata spettacolare arricchita da crostini e tante altre delizie, nel tipico clima gioviale e di festa che si respira per tutti e due i giorni. Lasciamo a malincuore l’odore di carne alla brace per iniziare la salita che ci porterà sui Monti della Calvana. Si tratta di una salita poco impegnativa e dolce, che conduce verso il mio paesaggio preferito: le praterie sommitali. La Calvana infatti, prende il nome dal suo essere “calva” di alberi ed è famosa oltre che per gli sconfinati prati verdi, anche per le mucche ed i cavalli che vivono in totale libertà per tutto l’anno e sono i padroni assoluti di questo territorio. Questo è anche il luogo dove sono cresciuto e conosco più di ogni altro, infatti, dal ristoro VAB che raggiungiamo in poco più di un’ora di saliscendi fra i prati, casa mia dista appena 25′ a piedi verso Ovest. Rifocillati di liquidi e frutta, saliamo nel bosco del Poggio Mandrioni fino alle praterie successive, quelle più ampie e vaste dove il rimboschimento operato dal Governo Fascista degli anni ’30 non è arrivato. E’ quassù che si incontra il maggior numero di mucche e cavalli ed è quessù che si trova la vetta più alta della seconda giornata, il Monte Maggiore, 916 metri slm. Questo paesaggio ha però il suo rovescio della medaglia, e ce lo ricordano le discese ripide, brulle e sassose che dalla sommità conducono rapidamente al Crocicchio di Valibona, dove si incrociano le strade provenienti dal versante Fiorentino e quello Pratese, alla base del Monte Maggiore e del Monte Cantagrilli. Il ristoro è gestito dal negozio di sport Campione, ed offre insalate fredde, ribollita, panzanella ed altri piatti della tradizione locale, oltre ad una fornitura di integratori di sali minerali, indispensabile per affrontare l’ultimo tratto. Se, come quest’anno, il tempo è bello, da questo momento non ci sarà più ombra fino all’arrivo e la salita che conduce alla croce metallica apposta sul Cantagrilli è decisamente sfiancante. Eppure, ogni volta, tutta la fatica scompare all’aprirsi del panorama che si gode da quassù. In una giornata tersa come ieri, c’è da rimanere senza fiato: si può vedere più di mezza Toscana, dal Mugello al Falterona, da Le Cornate al Monte Serra e fino alle Apuane, il tutto a fare da sfondo alla piana Firenze-Prato-Pistoia che si domina nella sua interezza e riconoscendo chiaramente il centro di tutti e tre i capoluoghi. Poco più avanti, una seconda croce posta subito sotto la vetta de La Retaia, offre un vertiginoso sguardo sul centro di Prato che si trova così sotto di noi da farci sembrare sospesi. Invece, ahimé, è ancora lontano e scendere fino in città richiede uno sforzo non inferiore alla peggiore delle salite: le ginocchia implorano pietà e le caviglie minacciano ammutinamento, soprattutto nel tratto asfaltato finale, ma per quanto distrutti, feriti, dolenti e sudati si possa arrivare al traguardo, è sempre la soddisfazione a vincere su tutto. Io non vedo già l’ora che sia l’anno prossimo, e voi, che aspettate? Visitate: http://www.dapiazzaapiazza.it
La scalata dell’enorme roccia del leone, residuo di un antichissimo cono vulcanico, è un’esperienza unica, impossibile altrove. La biglietteria del sito, patrimonio dell’umanità UNESCO, apre alle 7:00, e se come noi avrete la fortuna di essere i primi ad accedere, potrete godere a pieno di ogni momento nella pace totale. Si attraversano i resti degli immensi giardini reali dove a parte qualche inserviente intento a spazzare le foglie, solo le scimmie e qualche uccello ci fanno compagnia. Qualche breve rampa di scale ci avvicina al monolite, dove inizia la vera scalinata. È indispensabile munirsi di acqua in abbondanza e protezione solare, già alle 8:00 il caldo è impietoso. Un camminamento prima scavato sul fianco della roccia e poi sospeso nel vuoto, conduce sul lato nord dove si trovano due zampe di leone giganti che abbracciano una nuova scalinata. Arriviamo sulla sommità per primi e dopo una quantità indefinibile di foto, scegliamo un punto panoramico nascosto e ci sediamo su uno dei muri dell’immenso palazzo che si ergeva quassù, ospitando prima una reggia e poi un monastero. Nel giro di mezz’ora tutta la zona brulica di gente e la via del ritorno è una processione infinita di turisti da ogni parte del mondo che, nel caldo ormai insopportabile, si avventura in fila nella direzione opposta alla nostra e che, ne sono certo, avrà sicuramente un’impressione differente da quella di assoluta beatitudine che abbiamo vissuto noi. Discesa la roccia, ci godiamo le rovine sparse nel giardino sottostante, all’ombra di alberi giganti, anche qui del tutto indisturbati.
Nel versante Versiliese delle Apuane meridionali, questa profonda e stretta gola, incastonata fra pareti rocciose ed incombenti, è un luogo insolito e straordinario dove trascorrere una mezza giornata di trekking in una natura lussureggiante. Le numerose cascate e piscine naturali presenti sin dall’inizio del percorso, permettono di organizzarsi anche insieme ad amici e parenti meno avventurosi, che potranno rimanere ad attendervi facendo il bagno o leggendo un libro nel fresco del bosco.
Come Arrivare: dall’uscita autostradale di Viareggio prendere per Camaiore, e quindi per Vado-Casoli. Superato l’abitato di Lombrici, all’incrocio per “Casoli” presso il ristorante “Emilio e Bona” proseguite dritto, fino a superare l’Antica Ferriera Barsi, e cercate parcheggio. Il sentiero comincia poco più avanti, sulla sinistra, presso il mulino di Candalla.
Il Percorso: Il Mulino di Candalla è molto scenografico, con la sua ruota dentata visibile ed una cascata adiacente che si getta in una bozza turchese e trasparente, ideale per un bagno. Presso la sorgente adiacente le scale, potrete riempire le vostre borracce prima di incamminarvi. Il sentiero sale subito in modo deciso ma gradevole, e vi conduce in brevissimo tempo ad un bivio, con un cartello poco visibile dipinto sulla roccia: è il momento di decidere se effettuare l’anello in senso orario o antiorario. Prendendo a destra verso “Mulini”, seguirete il sentiero fino a raggiungere un antico ed imponente opificio abbandonato, aggiratelo sulla sinistra e proseguite scegliendo sempre, ad ogni biforcazione, il sentiero più a destra, che vi permetterà infine di superare il corso d’acqua e salire sull’altra sponda fino a Casoli, da dove discenderete per la mulattiera e quindi fino a questo bivio.
Noi abbiamo proseguito subito per Casoli, ed è questa direzione di marcia che andremo a descrivere. Scegliendo di risalire immediatamente la mulattiera, pavimentata con un antico acciottolato, si sceglie anche di compiere un discreto sforzo fisico ma che in venti minuti vi permetterà di mettere alle spalle ogni fatica e di godere poi di un percorso estremamente agevole e privo di difficoltà. La salita si inerpica fino al Bar la Frana. Svoltate a sinistra e prendete la scalinata per visitare il borgo di Casoli, caratterizzato da numerosissimi affreschi alle pareti della case, altrimenti proseguite a destra, preoccupandovi di tenere sempre d’occhio i segni gialli e bianchi che identificano il percorso, solitamente accompagnati anche da una freccia azzurra, e tracciati ora sulle pareti delle case, ora sul pavimento.
Lasciata la frazione orientale di Casoli, il sentiero è ampio e piacevole fino al cimitero, dopodiché, superato il corso del fosso con un ponte in acciaio e legno, sale leggermente fino a condurvi ad un nuovo bivio: fate molta attenzione al cartello sulla parete sinistra indicante “Metato”, poichè non molto visibile. Voi dovrete lasciare il sentiero principale e prendere a destra, seguendo il sentiero che vi ricondurrà attraverso una vegetazione rigogliosa e lussureggiante, innumerevoli edifici abbandonati e lagune cristalline, al punto di partenza.
Lungo il percorso, in discesa, si possono visitare i resti di numerosi edifici, ormai abbandonati, dei quali le piante si sono ormai impadroniti ma che rendono un’idea molto precisa di quanto questa gola fosse importante e vitale un tempo.
Questo viaggio ha visto un crollo progressivo e piacevole dei luoghi comuni che accompagnano l’idea che molti hanno del Regno di Mezzo (Zhongguo): la Cina. Una continua scoperta visiva, sensoriale. Shanghai ci accoglie al massimo della tecnologia, accompagnandoci in città dall’aeroporto su di un treno a levitazione magnetica che raggiunge i 430km/h. La città si presenta proiettata in avanti, non solo nell’aspetto futuristico degli svettanti grattacieli, ma negli spazi immacolati e scintillanti del centro dove regnano ordine e pulizia, tecnica e progresso. A ricordarci di essere in Asia ci pensano gli automobilisti privi di regole e la moltitudine di scooter elettrici che silenziosamente compaiono all’improvviso anche su marciapiedi o zone pedonali. Rimane poco dell’anima di Shanghai antica: una scintillate nicchia di edifici vermigli a Yuyuan Garden, un affollato reticolo di stradine a Qibao e il maestoso lungofiume del Bund. Ci spostiamo a nord sul treno proiettile ammirando una campagna sconfinata ed è Pechino ad avvolgerci completamente rinnovando in me e stimolando in Nicola un piacevole mal d’Asia dal quale è difficile sottrarsi. Beijing, la Capitale del Nord, immensa coi suoi edifici per lo più bassi, si distende in quadrati concentrici attorno alla Città Proibita, nella quale si diventa piccoli e storditi già dopo la prima porta. E’ dalla collina di Jingshan che si può ammirarne l’ampiezza e scorgere in qualsiasi direzione una città che, diversamente da tutte le altre, non minaccia lo sguardo con imponenti grattacieli o mortifica il panorama con ciminiere e tralicci: è una visione armonica, ampia, accogliente. Ne abbiamo conferma attraversando i primi hutong verso Nanluoguxiang, alberato passeggio nella storia costellato da bei caffè e negozi invitanti. Un distretto artistico nato dalla conversione di una ex zona industriale ci meraviglia e appassiona fino a rapirci per oltre mezza giornata. Il verde, per fortuna, continua a dominare la scena, con ampi parchi pubblici disseminati ovunque e viali tutti alberati, vien voglia di cancellare il crescente numero di auto che, seppure ridicolo in proporzione agli abitanti, incombe sulla pace che si respira. Le persone sono cordiali, accolgono con entusiasmo il mio cinese basilare e la comunicazione è sempre divertente. Si percepisce voglia di individualità nell’uso di moda e tecnologia da parte dei giovani, un risveglio dall’omogeneità mortificante dell’era di Mao. Tutto questo è ancora più evidente osservando gli anziani esibirsi nei parchi e in ogni piccolo spiazzo a disposizione, al mattino con sedute collettive di Tai-Chi ed alla sera, con una radio improvvisata, in balli di gruppo o di coppia che incantano i passanti. C’è così tanto da vedere e fare che sei giorni volano via in un attimo scanditi dall’ottimo cibo. Infine la Grande Muraglia Cinese, che nella zona di Jinshanling, più genuina e meno turistica, si staglia in tutto il suo originale splendore fin dove l’occhio riesce a vedere. Ritorno felice, appena più sazio nell’inesauribile voglia di scoperta e conoscenza.
Abbiamo scelto questo tratto di Muraglia perché ancora fuori dalle rotte turistiche e solo parzialmente restaurato. Il restauro invasivo ed eccessivo effettuato nel tratto di Badaling, il più vicino a Pechino, ne ha estirpata l’essenza e la genuinità: bancarelle e corrimano occupano il tratto restaurato a tal punto da sembrare appena costruito. A Jinshanling, invece, la Muraglia è esattamente come in origine, salvo qualche tratto sistemato con le pietre originali, ed è collegata benissimo al tratto più orientale di Simatai, uno dei tratti più scenografici, impervi e impressionanti ancora oggi in piedi. Questo secondo tratto all’epoca della nostra visita era in restauro. Ci siamo rivolti allo YOUTH HOSTEL di Centipede Street a Pechino, e abbiamo scelto un tour in giornata ad un prezzo quasi ridicolo: con 20 Euro ci hanno accompagnati (3 ore circa di strada) al punto di partenza ed atteso al punto di arrivo. Una volta sopra la Muraglia, la sensazione è forte, il cuore batte all’impazzata e l’emozione indescrivibile, verrebbe voglia di percorrerla tutta, in ogni direzione. Ovunque si volga lo sguardo, si intravedono torri e torri a perdita d’occhio. Questo è forse il trekking più emozionante e più coinvolgente che io abbia mai fatto.
Per festeggiare l’attesissimo arrivo delle maniche corte, ho portato Nicola alle Cinque Terre. Il Sentiero Azzurro non ha paragoni al mondo: camminare nel verde a picco sul mare da un paesino all’altro mi gonfia il cuore. Lasciata la macchina alla stazione centrale di La Spezia, ci siamo affidati alle Ferrovie ed abbiamo raggiunto Monterosso, la più settentrionale delle Terre. Ho scelto questa direzione ricordando con timore l’infinita scalinata che si incontra quasi immediatamente in direzione Vernazza, ma sapendo che, fatta quella, camminare in direzione sud è molto più piacevole e riposante del senso inverso, inoltre col sole nel punto giusto, è possibile regalarsi la prima abbronzatura senza la noia di sdraiarsi a cuocere su un telo e sprecare il proprio tempo. Abbiamo incontrato pochissime persone ed in vari tratti il sentiero è ora provvisto di una nuovissima staccionata in legno e di varie migliorie dopo le frane dell’inverno. Raggiungere Vernazza è comunque impressionante: già dall’alto si percepisce la portata di quella che è stata l’alluvione dello scorso autunno: il lungomare è completamente cambiato ed entrando in paese si affronta il crudo segnale di una tragedia più grande di quanto visto in TV. Rimaniamo in silenzio davanti ad una casa sventrata dalla portata del fango: alla nostra destra una camera da letto sospesa nel vuoto e dall’altro lato una cucina senza pareti. Tra le due porzioni il vuoto assoluto. In paese, camminiamo fra quel che resta di attività commericali ed abitazioni, tutte private di infissi e contenuto. Del fango però non resta niente, il paese è pulito e si incontrano tanti sorrisi fra gli abitanti ed i pochi commercianti che hanno potuto riaprire le attività. Ci sediamo a mangiare sul molo e riprendiamo a camminare verso Corniglia che superiamo dopo una breve visita. Purtroppo, è impossibile proseguire verso Manarola a causa di una frana ancora in corso di riparazione e siamo costretti a ritornare in stazione per raggiungerla in treno, il solo mezzo di trasporto possibile se non si ha una vettura propria. Nel nostro ridicolo Paese però è molto difficile tornare a casa col sorriso: quando non si incontra la fregatura si incontra sicuramente qualche furbo, uno o più maleducati o almeno uno a scelta tra i tanti disservizi a disposizione; sembra quasi una gara al rilancio. Nel nostro caso, la qualità impeccabile del Disservizio Italia consiste nello sciopero dei Treni. Sono le tre del pomeriggio e ci viene annunciata un attesa di due ore. Ci sediamo irritati su un muretto dove ci addormentiamo. Il treno naturalmente arriva soltanto alle sei. Raggiungiamo Manarola e riprendiamo il cammino, stavolta rapidissimo, pianeggiante e costellato da turisti, verso Riomaggiore. La nostra giornata sarebbe terminata qui, con tre ore di intoppo, troppo poche evidentemente per poter essere considerate contrattempo, e così Trenitalia ci sottopone ad una serie di annunci che superano qualsiasi barzelletta cominciando a strillare ritardi in successione aggiungendo del tempo all’annuncio via via precedente, con la cortesia di tradurre il tutto nel caratteristico Inglese maccheronico. E così, quando i minuti di ritardo diventano addirittura ottanta, perdiamo pure forza per arrabbiarci. Rientriamo a casa a notte fonda, con un ritardo accumulato di oltre cinque ore. Il solo pensiero che riesco a formulare è il seguente. Il nostro Paese, che negli spot pubblicitari, nelle campagne ruffiane dei Ministeri e nell’immaginario collettivo continuiamo a voler chiamare il Belpaese, resta un semplice vecchio stivale infangato: per quanto strofinato, sciacquato, rammendato, rimane un vecchio stivale dove lo sport preferito dal cittadino medio metterla in quel posto al prossimo, dove il manifestante ambientalista si raduna in piazza lanciando mozziconi di sigarette a terra, dove il vegetariano moderno grida all’assassinio di agnelli dentro a scarpe di coccodrillo, dove il no-global tatuato denuncia il sistema dall’iPhone e dove, se c’è sciopero, va fatto. Per cosa si sciopera? Che importa, per qualcosa sicuramente. Quasi un miracolo se alcuni turisti trovano il coraggio di tornare una seconda volta, certamente una fortuna che non abbiano già smesso di arrivare.
L’ultima meraviglia della tecnica entrata nella mia vita è questa: Sports Tracker by Polar. Da quando ho acquistato lo Smartphone Nokia 5800 Express Music è stato un susseguirsi continuo di scoperte ed applicazioni da scaricare, comprese una livella, un altimetro, una bussola e tanto altro, ma questa le batte tutte. Grazie al GPS, Sports Tracker permette di selezionare l’attività che si sta per affrontare fra diciotto disponibili, ad esempio corsa, camminata, canoa, vela, pattinaggio, mountain bike. Una volta inserito il proprio peso ed altezza, si seleziona start e si mette il telefono in tasca. Come per magia il telefonino si trasforma in un personal trainer completo di contapassi, cardiofrequenzimetro, cronometro, conteggio delle calorie. Il GPS calcola con precisione la posizione di partenza e traccia il percorso in tempo reale calcolando i metri con assoluta esattezza. Anche la precisione del contapassi è eccezionale. Per i battiti cardiaci è sufficiente possedere un cardiofrequenzimetro bluetooth ed il gioco è fatto. A fine percorso, è possibile salvare, rivedere e caricare online la propria attività completa del tracciato su mappa. C’è anche un link diretto per pubblicare il proprio lavoro su Facebook. Il tutto, non compromette il funzionamento del telefonino che continua ad essere in grado sia di inviare e ricevere chiamate che di funzionare come lettore Mp3. Con tutta questa tecnologia, non ho più scuse per restare sul divano!
Dalla cittadina di Pokhara, guardando verso il grande lago Phewa, alla nostra sinistra si vede il bianco stupa del Tempio della Pace, mentre a destra si intravede un rilievo, apparentemente molto vicino, con un forte sulla sommità: si tratta del Forte di Sarangkot, a 1600 metri di quota. Lo si raggiunge comodamente in auto o in scooter, lungo un percorso molto stretto ma agevole che conduce proprio ai piedi del tratto finale, e così abbiamo fatto io, Marta, una ragazza che faceva volontariato con me nell’Orfanotrofio Rainbow Children, e quattro delle ragazze dell’Orfanotrofio: Bhumika, Sujata, Tulasha, e Bipana. Dal Forte, il panorama toglie il fiato: Si riesce a vedere un tratto veramente ampio dell’Himalaya: l’Annapurna è imponente davanti a noi, ma il vero protagonista è il picco del Machapuchare, col suo monolito piramidale bianco e splendente, mai scalato da alcuno in quanto sacro ai locali. Decidiamo di ritornare con una passeggiata nel sentiero che conduce al Lago Phewa. La parte inziale è nel fitto bosco, ben visibile e battuta, e con poche curve si scende di parecchi metri fino a raggiungere un altopiano coltivato a riso. Ci si fa strada fra le risaie su muretti e lungo canali, seguendo a vista la direzione del lago, fino a raggiungere un torrente alla base dei campi di riso dal quale poi, la strada ci porta nella sola direzione possibile e cioè lungo la riva. Ci siamo rifocillati presso un ristorante locale, ed abbiamo proseguito poi in direzione di Pokhara, ad est. Il percorso di solo ritorno richiede circa un’ora e mezza, a noi ne sono servite quasi tre a causa delle pessime calzature delle ragazze e della calma con cui abbiamo affrontato il tratto.