Si realizza un sogno, possedere una Panda 4×4 vecchio tipo…





masmassi
Si realizza un sogno, possedere una Panda 4×4 vecchio tipo…
(mentre leggi, ascolta “Deeper and Deeper, Madonna”)
1994
È un’imprecisata domenica d’autunno, quando vengo svegliato da un ronzio che sembra provenire dalla cucina. Semi addormentato, non riesco ancora a capire di che si tratti. Casa ha le porte vecchie, di quelle vuote che chiuderle o meno non fa differenza, si sente comunque tutto. Anche i muri sono sottili, tanto che risulta impossibile dire qualcosa di nascosto. Vado in bagno e, con la finestra aperta, sento le voci di mamma e papà in cucina, anche loro a finestra aperta, che armeggiano con qualcosa punzecchiandosi come al solito. Non capisco le frasi intere ma solo alcune parole chiave qua e là. Comincio ad essere più sveglio e provo ad immaginare cosa sta accadendo. Abbiamo avuto ospiti ieri sera, a cena. Amici dei miei, di quelli che si palesano una, due volte all’anno. Di quelli che meglio farli venire il sabato o il venerdì, così da tenerli separati dai familiari, che invece vengono la domenica, perché “non si intonano”. A cena, i miei hanno preparato una grossa quantità di pesce e verdure lesse, disposti nei soliti vassoi di metallo ovali: brutti e rumorosi, sembrano le gavette del rancio al fronte nella prima guerra mondiale. Ci perdiamo sempre nei dettagli a casa nostra: non esiste alcuna etichetta. Sul linguaggio meglio soprassedere. Mio padre, trasteverino poco istruito, è solito dimostrare il massimo del calore spedendo tutti ripetutamente laggiù, in quel paese tanto caro al suo Giggi Proietti. Mamma, rassegnata (più o meno) ai modi di papà, tampona prendendo in prestito educazione e raffinatezza, goffe ed incomplete, dalle case nelle quali presta servizio come infermiera o dalle sue amate fiction televisive. Guai se la tovaglia è macchiata o non stirata, poi però nessun problema se i bicchieri sono scompagnati e i coltelli sono quelli da mille lire, col manico in plastica marrone e un po’ bruciacchiato. Ieri sera infatti, la maionese per il pesce è stata servita, al solito, in una tazza da tè col cucchiaio da minestra. Quanto odio il rumore di quei cucchiai giganti di ferraccio, brutti, col manico decorato a pallini in rilievo, che sbattono dentro le tazze da colazione! Insopportabile, ma pazienza, ormai tanto è la routine, ed è la stessa musica anche in quella sera a settimana in cui ceniamo con latte e biscotti: par d’essere in un negozio di campanelli! Ieri sera però qualcosa è andato storto: la maionese di papà non è riuscita e nella tazza c’era un amalgama giallastro con striature d’olio che tutto poteva sembrare meno che appetibile. Ebbene, dopo un dibattito fin troppo lungo ed aver messo via quel fallimento, la serata è proseguita nella normalità, con la pesantezza e la cafoneria dei nostri ospiti che, con le loro domande inopportune ed i loro aneddoti privi di interesse, superavano di gran lunga la maleducazione di papà. Questo però, lo avrei scoperto solo più avanti negli anni, mentre avrei dovuto immaginare subito che il “Maionese-gate” non sarebbe rimasto archiviato a lungo.
Esco dal bagno, infilo i pantaloni e scendo le scale. Penny, il nostro cane, viene verso di me e persino nella sua espressione mi sembra di notare un po’ di rassegnazione. Raggiungo la porta della cucina, col ronzio che aumenta, e una volta aperta eccoli lì, tutti e due. Non mi hanno sentito, entrambi di spalle ai due angoli opposti della stanza: mamma indossa il solito vestito da casa a fiori verdi e viola, sbracciato, ma con ai piedi calzini di lana e ciabatte con la suola di sughero. Papà ha una maglia tremenda di Missoni che ha preso coi punti del gasolio all’Autogrill, di quelle con tremila colori intersecati senza logica che se la guardi più a lungo di cinque minuti rischi un attacco epilettico o un trip emozionale; per fortuna quella maglia è stata subito declassata a “maglia da casa” e non ha mai lasciato queste mura. Il tavolo, al centro della stanza, è una vera esposizione di bicchieri di vetro di ogni genere, alcuni con personaggi dei cartoni animati stampati sopra, una volta contenenti Nutella, ma tutti accomunati dal solito contenuto e inframezzati da decine di gusci d’uova.
Mamma si volta – Massimilianino! Che ti s’è svegliato? – mi chiede, come se non mi avesse già messo un nome abbastanza lungo, e in quel suo personalissimo italiano, quasi perfetto, ma costellato di termini e costruzioni tutti suoi: un po’ pisani, un po’ pratesi e un po’ inventati.
– No, mamma, ma che state facendo? – chiedo, più che altro per conferma visto che mi sembra evidente
– Semo a fà la maionese… tu madre è fissata co’le fruste nun vole capì che oggiggiorno se usa er “minipime”! Nu je va bene mai’n ca(…) de quello che je porto io! – risponde papà. Anche il minipimer, come la maglia e come decine di altri oggetti più o meno utili, è stato preso coi famosi punti del gasolio all’Autogrill.
Mamma – Bah! Bah! Perché finora con cosa l’hai fatta? E allora? Ma fammi ride, costì…
E via andare, uno col frullatore a immersione, nuovo e moderno, l’altra con quello a due fruste, che credo sia arrivato in casa ben prima di me. Credo fosse bianco una volta, e che avesse anche alcuni accessori ora smarriti, me lo ricordo appeso con tutto il set nella cucina della vecchia casa. Adesso è giallastro, crepato e col cavo elettrico rammendato svariate volte, ma mamma non se ne separerebbe mai.
Papà – E allora falla! Forza! –
Mamma – O te allora? Come mai ancora non l’hai fatta? Eh? Eh? Eh? Tu’schiantasse! – Eccolo! Il suo più grande modo di offendere, che poi, detto così, non c’è neppure da prendersela perché non si capisce manco chi è che dovrebbe schiantare, quale terza persona immaginaria dovrebbe fare le spese di un simile anatema.
Papà – Nun me vié perché me stai a da’ fastidio... Levete, vedrai che me viè subbito! –
Mamma – Bah! Bah! Vedrai se mi dai sempre noia e mi sposti le cose è certa che un mi viene! Levati te costì, che pigli mezza cucina! –
E via andare. Vabbè, penso, ora prendo qualcosa per colazione e mi levo di torno, prima o poi gli passerà la voglia. Afferro una fetta di ciambellone da sopra la stufa in ghisa, e mi volto per andarmene quando invece…
– A’ Massimiglià… va’n po’ a vede ndér pollajjo sì’cce stanno du’ova, che l’amo finite. Forza! –
Sbuffo, ma vado. Penny mi segue, come sempre. Entro nel pollaio vuoto, tutte le galline sono già in giro, meno una, che invece sta nella cassetta di legno, di quelle da frutta e piena di paglia, pronta a fare il suo uovo. La sposto, e sotto di lei ce ne sono tre. Una ha uno scarabocchio fatto a penna sopra: è l’uovo che mamma lascia sempre perché, secondo lei, serve alle galline per tornare a fare le altre sempre lì, invece che “di lì e oltre” (in giro). Un uovo civetta, una sorta di istruzioni per l’uso formato gallina, che fortunatamente nessuno ha mai pensato di applicare in bagno, in formato persona. Prendo quindi le due uova fresche, il che, misteriosamente, significa calde e appena fatte, e mi incammino verso casa.. oppure… no. Mi fermo, torno indietro, e rimetto le uova sotto la gallina. Ma sì.
Torno in casa e annuncio che non ci sono uova stamattina. In un attimo, tutto si ferma. Tutti e due mollano i rispettivi utensili sul posto e scompaiono. Papà al piano di sotto, nella sua falegnameria, mamma nella stanzina-lavanderia, oltre il giardino. Rimango solo, in quella cucina impregnata di puzza d’uovo e ricoperta di schizzi che sembra abbandonata in tutta fretta durante un terremoto. Decido di sparire anche io, nel bosco con Penny. Mai più si è parlato di quella sfida, ho semplicemente visto comparire, di volta in volta, le rispettive maionesi sul tavolo, preparate da l’uno o dall’altra, in totale solitudine e segretezza, e senza mai rivelare con quale arnese. Solo molti anni dopo mamma si sarebbe fatta sorprendere col minipimer in mano, ma per frullare un minestrone, mai per una maionese!
La cucina è cambiata molto, ma conserva ancora oggi, così come l’intera casa, quel magico strato di voci e di odori sospesi a mezz’aria, come uno strumento musicale invisibile che suona soltanto se attraversato o respirato, e che ogni giorno, in qualsiasi punto, mi ripete, rinnova, risveglia e racconta gli aneddoti e le conversazioni di una vita trascorsa qui. Come potrei mai lasciare questo luogo?
(mentre leggi, ascolta “I’ll be around – Empire of the Sun”)
Agosto 2019, appartamento sotto
Siamo tutti in veranda mentre arriva Silvia, la nostra veterinaria. Entra con l’auto nel cancello e parcheggia davanti a noi. Trattengo Hela, la nostra pinscher, mentre il buon vecchio Birillo, con la flemma che lo contraddistingue, si avvia lentamente fuori casa e, scesi i due scalini con estrema cautela, procede verso Silvia, scodinzolando.
«No! Ma guardate com’è, ha una fibra questo cane… incredibile» dice Silvia, accarezzando Birillo sulla schiena. Sembra quasi avere un ripensamento, quindi le chiedo di illustrare a noi tutti il quadro della situazione da capo, in modo che possiamo ascoltarlo nuovamente e ritrovare la determinazione che, fino ad un attimo prima, pensavamo di avere.
«Quando il cane è arrivato da me, l’altro giorno, ho pensato ad un tumore, una metastasi, qualcosa del genere insomma» spiega «ma una volta apertagli la bocca, per capire l’origine del gonfiore spaventoso, ho capito che si trattava di un’infezione da piorrea in fase molto avanzata, che probabilmente gli è arrivata anche alla testa e che, quasi certamente, è responsabile dell’attacco epilettico avuto la settimana prima. Non fosse un cane di quasi vent’anni, una soluzione poteva essere l’asportazione di tutti i denti, la ricostruzione della gengiva e tanta, tanta pazienza e farmaci. Come vi ho già detto però, sottoporlo a tutto ciò per sperare in un prolungamento della vita di appena qualche mese, oltretutto con una mutilazione, non è consigliabile”.
Non ancora soddisfatto, spero che ripeta quanto mi ha già detto allo studio, due giorni prima, per assicurami di aver capito bene, e infatti… «Gli antibiotici che sta facendo sono fortissimi, è sgonfiato ed apparentemente a voi sembra stare bene, ma ha comunque dolore, un dolore che con ogni probabilità continuerà a crescere, potrebbe portare a nuovi attacchi epilettici, febbre, o addirittura alla frattura della mascella. Penso che abbiate preso la decisione giusta: regalargli un fine vita dignitoso qui, a casa sua, circondato dalla sua famiglia, ad un’età molto avanzata e raggiunta in piena forma, non è altro che un gesto d’amore»
[…]
Prima che Silvia se ne vada, le faccio fare un giro della casa, andiamo sopra e le mostro l’appartamento che affittiamo ai turisti. Si sofferma a guardare tutte le foto dei miei genitori appese, scelte appositamente fra le più buffe, e poi ci spostiamo in terrazza. «Sono venuta soprattutto per gratitudine verso la tua mamma, oggi, e se non sbaglio è anche l’anniversario della sua morte?”, ricorda Silvia correttamente. “Immagino come tu possa stare. La tua mamma mi ha sempre sostenuta, aiutata e consigliata, fu la mia prima cliente quando ho aperto lo studio, trent’anni fa ormai. Adesso che sono qui a casa sua, tua, ho la conferma di quello che ho sempre sostenuto. Pensala come vuoi, ma sono convinta che ci sia una particolare energia in questo posto. Un’energia che vi ha sempre mantenuti felici, che ha permesso alla tua mamma di affrontare una lunga malattia senza sintomi o dolore, che ha portato Birillo, quindicenne e claudicante, a ritrovare una seconda giovinezza e vivere ancora quattro anni in piena forma. Ti voglio ringraziare per avermi permesso di fare questa cosa in questo modo e in questo posto, non pare, ma anche se pratico decine di eutanasie, questa è stata molto particolare anche per me»
(alcuni giorni dopo)
Non appena l’auto di Silvia ha lasciato il cancello, ho ripassato mentalmente quanto appena ascoltato, ma in modo molto distaccato e rapido, solo per memorizzare, non avendo la testa abbastanza libera, in quel momento. Quindi, sono entrato in casa, e solo oggi torno a pensarci, mentre scrivo questo testo.
Sicuramente Silvia ha sempre avuto una forte ammirazione per mia madre, non mi riesce affatto difficile crederlo, e con molta probabilità mia madre, a sua volta, ha avuto un gran carattere ed una spiccata personalità, tali da mantenersi forte, positiva e sorridente durante la sua malattia. Effettivamente poi, Birillo non si trovava nel pieno della forma quando ha traslocato in questa casa, ed ha avuto un cambiamento evidente ed inequivocabile fin da subito. Abbiamo decine di filmati e foto che lo ritraggono mentre galoppa, con le orecchie che sventolano per aria e la lingua da un lato, con quelle sue gambe mezze storte che, a due a due appaiate, avanti e indietro, lo sospingono con forza fino a buffe derapate in curva o goffe inchiodate. Il potere della campagna, dicevamo noi, o una nuova felicità. Non so se Silvia si riferisse a questo, sono molto più solito soffermarmi sui problemi, sulle difficoltà o le preoccupazioni. Le cose belle, più frequentemente, sono gli altri a portarle alla mia attenzione, e solo allora le vedo davvero. Probabilmente capita un po’ a tutti, e non perché la si sottovaluti, ma perché spaventa un po’ constatare la felicità, per timore di intaccarla. Quindi, se lei parlasse di fortuna, di caso, di positività, di forza, o di tutte queste cose insieme, io non lo so. So per certo che rientrando in casa l’altra sera, con Birillo addormentato per sempre, nel suo materassino, ho decisamente sentito serenità, pochissima tristezza. E che esattamente un anno prima, in uno scenario pressoché identico, ho provato la stessa serenità, e, anche allora, pochissima tristezza. Per un anno intero, ho pensato di essermi inaridito al punto da non saper provare abbastanza tristezza, da non riuscire a piangere a sufficienza. Adesso però, ripensandoci, la completa serenità con cui ho potuto accompagnare sia mia madre che Birillo, e la certezza di aver dato tutto, ricevendo ancor più di tutto, devono aver reso inutili sia pianto che tristezza. Sì, credo di aver capito. Dev’essere proprio questo, questo senso di pace, anche nel dolore, che Silvia chiama energia.
(mentre leggi, ascolta “Cirrus – Bonobo”)
Giugno 2019, giardino
Ho appena finito di cenare, quando uno dei miei tre ospiti mi chiama e, pregandomi di seguirlo, mi conduce nel giardino di sotto, davanti alla mia porzione di casa. Indossa una camicia bianca, pantaloni grigi a righe, da camera, e ciabatte invernali. Ha la mia età, ma sarebbe stato pressoché impossibile dirlo, se non avessi registrato il suo passaporto il giorno prima. Viaggia in compagnia di un altro uomo e di una donna, bellissima e sorridente. Mi hanno chiesto tre camere separate, suppongo si tratti di amici, ma non so altro, infatti, si son mostrati subito riservati al loro arrivo e, a parte l’entusiasmo per la casa, tale da portarli ad estendere la permanenza da una a quattro notti, non ho avuto modo di parlare con nessuno dei tre, fino a questo momento.
«Massi, mi puoi dire che alberi sono questi?» esordisce, indicandomi un olivo. Rispondo, spiegando di cosa si tratti, e prosegue «Le foglie si usano? Quando maturano le olive? Si possono mangiare dall’albero? E quello laggiù, che albero è?».
Mi fa molta tenerezza e rispondo con quanta più completezza possibile, provando un piacevole gusto nello spiegare qualcosa di così ovvio per me, e nello scoprire che per lui non lo è affatto. Il dialogo prosegue in modalità “nonno-nipote” per qualche minuto, con Peter che, puntando il dito verso il paesaggio che ci circonda, continua ad interrogarmi con i suoi occhialetti rotondi e dorati, e con la sua testa completamente rasata. Mi sembra quasi di stare parlando con un bonzo. Improvvisamente ci interrompe Hela, la mia cagnolina, Peter si accuccia in quella postura fisicamente possibile solo agli asiatici, e, accarezzandola, interrompe la serie di domande per raccontare qualcosa di suo.
«Noi ti invidiamo molto Massi, sai? Questo posto è bellissimo, la campagna, il bosco. Da noi nessuno possiede del terreno e solo pochissimi possiedono un piccolo giardino. Gli altri due ragazzi sono scrittori, scrivono guide turistiche e saggi di viaggio. Nella sola ultima settimana hanno fatto Olanda, Belgio, Francia e Nord Italia. Noi orientali, come saprai, quando veniamo in Europa, cerchiamo di vedere quanti più luoghi possibile. Stanno scrivendo un libro sul rapporto degli europei con lo straniero, immigrato o turista, cercando di raccogliere del materiale in località il più possibile defilate, come questa». Si alza, lasciando Hela libera di allontanarsi, e prosegue. «Io li ho incontrati soltanto ieri, sul Lago di Como, ho fatto un giro completamente diverso dal loro, arrivo da Spagna e Provenza. Ci siamo conosciuti lo scorso anno, sempre in un viaggio ma in Corea, e avevamo previsto di trascorrere una notte qui, a Casa Manilo, per salutarci, passare una sera insieme, e proseguire poi per destinazioni diverse: loro diretti in Austria e Germania, io, invece, a sud». Ho quasi paura di interromperlo, perché ascoltarlo è affascinante, ho addirittura il timore che possa pensare di annoiarmi, quindi sorrido e faccio assensi col capo, mentre parla, per incitarlo a proseguire. «Io, sai, sono in Europa per ragioni completamente diverse dalle loro. Due ragioni, in realtà. La prima, è cercare di capire e scoprire cosa significhi spiritualità. Ho letto molto di religione e devozione, di passione per la fede e sacrificio, ma, non essendo religioso, non riesco a capire cosa possa significare, per qualcuno, dedicare la propria vita a qualcosa di non dimostrabile, di irreale, di astratto e misterioso. Non ho intenzione di abbracciare alcun credo, ma sto cercando di visitare alcuni luoghi della spiritualità per osservare, proprio da spettatore, questa realtà a me ignota. Così ho visto Santiago di Compostela, Avila, alcuni altri monasteri nel sud della Francia e infine avrei dovuto proseguire per Camaldoli, La Verna, Assisi ed infine Roma. Ieri sera però, siamo rimasti tutti e tre così colpiti dal tramonto e dalla bellezza del panorama, che abbiamo deciso di fermarci quattro notti anziché una soltanto: loro sistemeranno i loro appunti ed io… beh, più spirituale di questo luogo, non credo possa desiderare. Rinuncerò alle tappe intermedie ed andrò direttamente a Roma». Sono sempre più rapito da questo dialogo inatteso e particolare, cerco con lo sguardo Nicola nelle finestre di casa nostra ma senza individuarlo, mi piacerebbe venisse ad ascoltare questo ragazzo insieme a me. Peter sembra essersi accorto della mia momentanea distrazione, così, perché prosegua, chiedo quale sia la seconda ragione che lo ha portato in Europa. Mai avrei potuto immaginare la risposta che stavo per ricevere.
«Il secondo motivo del mio viaggio in Europa è vedere, a quarantasette anni e per la prima volta, il cielo e le stelle!». La mia espressione, sbalordita ed incredula, deve colpirlo, perché, da sorridente e leggero, il suo tono diventa appena più gravoso e serio. «A Seoul – che, scopro in quel momento, si pronuncia sòl [ndr], – non si vedono le stelle la notte ed il cielo non è mai azzurro di giorno. Abbiamo tanto inquinamento, una cappa costante sulla città e, spesso, la sabbia del deserto mongolo rende il tutto giallastro e polveroso», si tocca quindi il colletto della camicia, per poi proseguire «Alla sera siamo sempre sporchi di smog e sabbia, la città è sovraffollata ed occupa un’area così vasta ed urbanizzata che non è semplice allontanarsi spesso». A quel punto incrocio le braccia, inclino la testa esprimendo stupore ed interesse, e chiedo se nelle campagne, o nelle zone agricole, la situazione sia diversa. Vedo che Peter, nonostante non mi stia facendo un quadro molto allettante del proprio Paese, ha piacere di proseguire il racconto. «In Corea del Sud quasi tutta la popolazione vive nei due principali centri urbani. Le campagne sono quasi totalmente spopolate e l’inquinamento dell’aria non risparmia ormai nemmeno quelle. Difficilmente, col tenore di vita che abbiamo, esiste il tempo di andare nelle campagne o altrove nel Paese, preferiamo risparmiare e fare un viaggio come questo. Pensa, durante la scuola primaria viene solitamente fatta una gita su una delle pochissime colline che abbiamo, per permettere ai bambini di intravedere qualche stella. Ieri sera, qui, nel tuo giardino, abbiamo spento le luci esterne e ci siamo stesi a guardare il cielo. Sono in Europa ormai da una settimana, ma sempre in città o cittadine. Vedere il cielo da qui è stato commovente, grazie».
Ho messo la casa in cui sono cresciuto su un famoso sito per affittare ai turisti. L’ho fatto così, quasi per gioco, sperando di avere ogni tanto qualcuno che la abiti, dopo che i miei sono entrambi recentemente scomparsi. Ebbene, il solo aver avuto Peter, anzi, questa sola conversazione con lui, mi fa pensare di aver già ottenuto il più grande compenso possibile: il confronto. Questa chiacchierata è stata un piccolo viaggio, emotivo e mentale. Certo, il mio cielo è questo da tutta la vita, e spero rimarrà tale, i miei alberi sono gli stessi, piccoli, ovvi, scontatissimi ed onnipresenti olivi da sempre. Eppure, dopo stasera, credo che tornerò spesso a pensare a come, incredibilmente, tutto questo possa essere così meraviglioso e stupefacente per qualcun altro, in qualche parte del mondo, e che costui, per puro caso, potrebbe trovarsi a passare da qui.
Capitale dell’Andalusia, nella Spagna del sud, regione vasta ed autonoma dal clima mite in inverno e torrido in estate, Siviglia si conferma, come ricordavo dalla mia prima visita nel 2008, una città spettacolare e fra quelle che amo di più in assoluto. E’ questa la stagione migliore, insieme all’autunno, per visitarla senza soccombere al caldo che, in Luglio ed Agosto, segna il record europeo. Il centro storico è fra i più vasti d’Europa e si suddivide in più zone dalle distinte anime e caratteristiche, una serie di barrios tutti splendidamente ricchi di cose da vedere e fare.Nel Casco Antiguo, cuore turistico, sorge la Giralda, oggi torre campanaria dell’immensa Cattedrale Gotica, che fu minareto della moschea moresca al tempo della dominazione araba. Adiacente alla Cattedrale, spicca il meraviglioso edifico de l’Archivo de Indias, al cui interno sono custoditi milioni di pagine di migliaia di manoscritti dalla scoperta dell’America in poi: particolarmente emozionante è leggere le pagine redatte da Cristoforo Colombo, sepolto nella Cattedrale, che descrivono lo sbarco ad Hispaniola, leggere il dizionario delle parole dei nativi americani o ancora l’elenco dei prodotti scoperti, assaggiati ed importati dal nuovo mondo. Siviglia è stata la porta di partenza e ritorno dalle colonie, a questo si deve la sua dimensione ed importanza. Percorrendo la vastissima e pedonalizzata Avenida de la Constitución verso Sud, si raggiungono con un po’ di pazienza sia la Torre de Oro, altro reperto della dominazione araba, e l’imponente Plaza de España, con l’edificio monumentale a semicerchio. Alle spalle della Cattedrale e dell’Archivio, ecco il Real Alcazar, la fortezza ancora oggi utilizzata stagionalmente dalla famiglia reale spagnola. Regalatevi una visita completa di questo palazzo con i suoi immensi giardini e le sue decorazioni scintillanti di maioliche ed oro, dopodiché, dal Patio de Banderas, immediatamente di fianco, attraversate i due piccoli archi bianchi ed immergetevi nella Juderia, il quartiere ebraico di Santa Cruz, con i suoi vicoli intrecciati colmi di negozi e ristoranti.
Questa è la zona nella quale si concentra la maggior parte dei turisti, i monumenti sopra citati sono tutti conosciutissimi e frequentatissimi e chi dispone di un giorno o due soltanto rischia di fermarsi qua, avendo scoperto appena un quinto della città. Percorrendo invece la principale via di Siviglia in direzione nord dalla Cattedrale, si raggiungono le zone che preferisco. Ecco Plaza Nueva con il palazzo dell’Ayuntamiento (Municipio), superato il quale due lunghe strade pedonali parallele fra loro, Calle Sierpes e Calle Tetuan, segnano il paradiso dello shopping, con negozi delle marche più note ed internazionali mescolati ad altri di prodotti locali ed insoliti: qualsiasi traversa si percorra in qualunque direzione racchiude una sopresa e, come racconta una nota canzone di Niccolò Fabi, sono le vie secondarie ad offrire i prodotti più interessanti. Spostandoci ad est, è imperdibile Plaza de Alfalfa, alberata e tranquilla zona popolare ed alternativa della città. Da qui, suggerisco una passeggiata nelle calles Perez Galdos e Ortiz de Zuñiga, dove si trovano alcuni fra i negozi miei preferiti. Proseguendo verso est dalla piazza si raggiunge Casa de Pilatos, un palazzo in stile tipicamente andaluso la cui visita merita un posto nel vostro programma.
Le due vie pedonali di cui sopra, in direzione Nord, ci portano fuori dal centro storico/commerciale, ed una volta percorsa la frenetica Calle Laraña e visitato l’imponente Metropol Parasol, una struttura panoramica modernissima a copertura di Plaza de la Encarnacion, avrete visitato praticamente quasi tutto quello che le guide più superficiali vi indicherebbero. Invece, ci sono ancora molte soprese. Dal Parasol, subito a nord si apre uno slargo che ci permette di raggiungere e percorrere la Calle Feria, dal nome dell’omonimo quartiere, lungo la quale si susseguono una serie di esercizi commerciali di svariato tipo. Anche qui, come nel resto della città, le case sono soprattutto bianche con rifiniture giallo ocra, il colore simbolo di Siviglia e dell’Andalusia. Dopo una sosta al meraviglioso mercato coperto, ricco di banchi alimentari e di piccoli ristorantini dalla eccellente qualità, potrete proseguire fino ai resti della cinta muraria di Siviglia e dare uno sguardo al Parlamento Andaluso.
Al termine di Calle Sierpes, dove spicca riconoscibilissima la storica pasticceria Campana, ed al termine della sua parallela Tetuan, di cui ancora una volta userò il termine nord come punto di riferimento, potrete percorrere una delle due proiezioni di queste vie, rispettivamente Amor de Dios e Trajano, per spostarvi ulteriormente a nord e raggiungere l’immensa e spettacolare Alameda de Hercules. Si tratta di uno spazio immenso, alberato e pavimentato, decorato e ristrutturato recentemente con fontane, panchine, tavoli e tettoie coperte e completamente circondato da locali. Inutile dire che la sera questa piazza trabocca di vita poiché offre praticamente tutto: dalle tapas alla cucina internazionale, dal pub al ristorante di lusso, dal cinema al teatro, il tutto con un sapore di festa paesana e una sensazione di rilassatezza. Prima di elencare alcuni consigli, concludo con il quartiere di Triana, oltre il Rio Guadalquivìr, dove potrete ammirare un moderno museo della ceramica e passeggiare su Calle Betis godendo di numerosi locali in cui sedersi a sorseggiare qualcosa guardando lo skyline di Siviglia oltre il fiumeDove Mangiare:
Consigli vari:
Non troverete la risposta in questo post, ovviamente, ma una piccola riflessione. Trovo che ci sia una forte similitudine tra arte e religione. La religione infatti, è nel senso di colpa, nella punizione e nel premio, nel rito e nella morale che affonda i propri cardini. E soprattutto, così come l’arte, nel dubbio. Ciascuno ha il proprio gusto, il proprio carattere, la propria emozione, la propria scala delle priorità e dei valori, perciò dovrebbe risultare quasi impossibile definire un’opera universalmente bella per chiunque la osservi. Si può tentare di creare qualcosa di assolutamente spettacolare, nel quale sia evidente il genio creativo o lo sforzo intellettivo e manuale, riuscendo in questo modo a ricevere il plauso di quanto più pubblico possibile. La tendenza invece, oggi, è rimpiattare dietro alla parola arte qualsiasi cosa si voglia, praticamente tutto. Se un critico particolarmente influente definisce arte un rubinetto rotto appoggiato su un tavolo, è quasi certo che un manipolo di spettatori pagherà un biglietto per vedere tale opera, instillando a sua volta il dubbio in un secondo gruppo di visitatori, che preoccupati di non capire l’opera o di non essere all’altezza di menti più colte, aumenteranno l’interesse per quell’oggetto, e così via. C’è un po’ di vergogna nell’ammettere di non gradire un’immensa sala vuota con una tela strappata al centro, c’è la paura di essere additati come denigratori, inesperti o insensibili. Cosa succede quando invece ci troviamo di fronte ad “artisti” che usano provocazioni che vanno al di là della comune decenza? E’ il caso di Jan Fabre, artista Belga poliedrico, le cui installazioni occupano in queste settimane Piazza della Signoria a Firenze, la più nota è l’enorme tartaruga dorata cavalcata da un uomo.
Costui, inoltre, realizza installazioni che non riesco in alcun modo a classificare: cadaveri imbalsamati di cani decorati a festa in uno squallido carnevale di corpi esanimi, gatti appesi a ganci da macelleria, teschi umani ricoperti da migliaia di scarabei dorati che masticano scoiattoli. Certo, sicuramente cani e gatti erano già morti prima di utilizzarli in questi teatrini, dubito tuttavia che il Sig. Fabre abbia raccolto personalmente le migliaia di insetti già morti nei boschi delle Fiandre. È anche vero che ci sono decine di persone che ancora oggi espongono trofei di caccia nelle proprie abitazioni, o peggio, indossano le cuoia di creature delle quali neppure ci nutriamo, ma si tratta davvero di arte, o di gusto personale, seppure discutibile? Si tratta di estro, o di provocazione? Si tratta di qualcosa di così alto da essere incomprensibile, o di una semplice presa in giro dell’artista per beffare i pecoroni? La buona notizia, è che questo genere di opere non verrà installata all’aperto o in luoghi pubblici perciò, grazie alla più grande libertà che ognuno di noi ha, quella di scelta, sarà l’affluenza di pubblico ad elevare certi feticci vestiti a festa ad arte sublime o a rendere certe mostre un semplice obitorio. La brutta notizia invece è che, se da secoli esistono emulatori e falsificatori di quadri e dipinti, non oso immaginare quale genere di tentativi di riproduzione aspettarmi da questa esposizione. Nel frattempo un nutrito gruppo di persone scandalizzate (dalla stampa definite a prescindere “animalisti”) ha creato gruppi e petizioni per impedire questa mostra a Firenze. Io mi limiterò a disertare l’evento, credo che ormai le povere creature siano già divenute pelouches e più che fermare la cosa, preferisco contribuire a renderla un fiasco, cosicché non ci sia la voglia di replicare. Abbiamo già la Specola a Firenze, che per le più nobili ragioni di studio, espone quasi ogni creatura vivente da secoli, peraltro con immenso rispetto.
I supereroi? Naaaa, non fanno per me. Non sono un grande amante delle trasposizioni cinematografiche dei più noti eroi salva-gente dei fumetti figuriamoci di quelli noti solo ai più attenti lettori Marvel & Co. Invece, questo supereroe, questo Jeeg impostore e improvvisato in una Roma dilaniata dallo spaccio e dalla corruzione, supera qualsiasi documentario, qualsiasi cine-mazzata, qualsiasi saggio o epopea sul tema Bene-Male/Gusto-Sbagliato mai trasmessi finora. Non credo esistano pellicole del genere realizzate in italia ad oggi. Non ha confronto.
Regia e colori pazzeschi, Santamaria prefetto per il ruolo, Ienia Pastorelli meravigliosa rivelazione, musiche e scenografie da cinema esportabile ovunque. Trama e soggetto godibili e narrazione fluida, grande carico di figure retoriche e di morale. Pausa.
Pausa.
Ecco, ora parliamo di Luca Marinelli, che interpreta il cattivo Zingaro. No vabbé, qualcosa di spettacolare. Mettetegli in mano Leone, Orso, Palma, David e Oscar subito. È sconvolgente. Sconvolgente!
Correte al cinema ora, subito!
Dopo aver sottoscritto l’abbonamento ad Apple Music (i soldi meglio spesi, ndr), ho la possibilità di accedere e di “possedere” tutta la musica del mondo, ascoltare qualsiasi artista, brano e playlist e di ottenere suggerimenti in base ai miei gusti ed ai generi ascoltati. Ci dedico un po’ di tempo ogni giorno e una volta in auto ho sempre qualche brano o artista da ascoltare o cantare, a scapito della radio che ormai scelgo soltanto al mattino, quando su Radio Deejay c’è il Trio Medusa. In periodo sanremese, però, sono tornato per alcuni giorni alla radio e subito sono stato rapito dal brano “Non Finirà“, in rotazione ancora molto frequente su Radio Deejay, che nulla ha a che vedere con la kermesse televisiva. Una bella shazammata e via su Apple Music alla ricerca di questo artista.
Scopro così che I Cani è lo pseudonimo di un singolo artista, Niccolò Contessa, romano e con all’attivo già tre album. Scarico l’ultimo, Aurora, e lo sparo in cuffia a letto, al buio. Artisti italiani ne seguo diversi, ne amo pochi e mi entusiasmano in pochissimi, ma questo album invece mi ha veramente emozionato subito, anzi no, rapito. La voce di Contessa la trovo perfetta, leggera e pulita, una dizione fantastica ed un timbro chiaro e, ove necessario, struggente. Le sonorità sono incredibili e solo apparentemente semplici, forse un po’ retrò ma col potere di rimandare la mia mente in qualche modo a stati d’animo e cartoni animati anni ’80, ancora non ho chiaro il perché. I brani che più mi hanno fatto battere il cuore sono tre, oltre al singolo già citato.
Il posto più freddo: non capisco, non so bene come descrivere la sensazione che mi scaturisce questo testo, questo suono, questo ritmo basico e martellante che si trasforma in pura nostalgia sonora nel ritornello. Incredibile.
Baby soldato: anche qui musica e voce sono al top, una metrica nuova, originale, la storia di una modella, di sacrifici, di rinunce, di lontananza, e quel fantastico niente, niente, niente che trasporta via l’ascoltatore dopo il secondo ritornello
Protobodhisattva: fredda e distaccata descrizione del genere umano, ridotto all’osso e ridimensionato nella sua piccolezza, con termini inconsueti e talvolta apparentemente volgari, ma con una metrica ed un sound incredibilmente catchy, sicuramente per me
Mentre ne scrivo, leggo che la critica è stata particolarmente severa verso questo lavoro, alcuni recensori si sono lanciati in accuse anche forti. Non sono un critico e non mi elevo a recensore, ma da semplice ascoltatore emozionato ed entusiasta spero di incontrare le stesse impressioni anche in qualcun altro, oltre me. Buon ascolto.
Queste le date del Tour 2016 appena annunciate:
1 aprile – Roncade (TV), New Age Club
7 aprile – Rende (CS), Teatro Auditorium Unical
8 aprile – Pozzuoli (NA), Duel Beat
15 aprile – Bologna, Locomotiv Club (special guest: Felpa)
16 aprile – Perugia, Urban Club
22 aprile – Torino, Hiroshima Mon Amour (con Todays)
23 aprile – Brescia, Latteria Molloy (special guest: Felpa)
24 aprile – Genova, Supernova Festival
29 aprile – Firenze, Auditorium Flog
30 aprile – Senigallia (AN), Mamamia
Come noto, la Comunità cinese di Prato è fra le più popolose in Europa. A partire dagli anni ottanta infatti, un numero sempre maggiore di cittadini cinesi è giunto a Prato in cerca di fortuna nel tessile, attività appresa in parte grazie ai pratesi stessi che, nel boom economico, trovarono nella Cina il cliente ideale per vendere i macchinari usati ed ammodernare le proprie industrie. Soltanto attorno alla fine degli anni novanta ci si è accorti della enorme separazione tra la Comunità cinese ed i cittadini pratesi, ma la preoccupazione è arrivata solo nei primi anni duemila, quando la crisi economica ed il basso costo dei prodotti delle fabbriche cinesi, comunque Made in Prato, hanno provocato la chiusura di centinaia di attività storiche locali. Oggi, che si cominciano ad intravedere timidi segni di ripresa e che si è finalmente riconosciuta una responsabilità del disastro economico anche negli industriali pratesi e nella negligenza degli organi di controllo locali, ci si rimboccano le maniche e si comincia a lavorare per una maggiore integrazione fra le due comunità. I cittadini di origine cinese, moltissimi dei quali ormai nati qui, hanno a loro volta cominciato a comprendere ed applicare le normative locali, si avverte una volontà di miglioramento e redenzione, di imparare dalle tragedie causate dallo sfruttamento della manodopera. Allo stesso tempo, molti giovani pratesi si sono attivati per la creazione di associazioni, attività ed imprese volte a promuovere una conoscenza e collaborazione perché è sempre più evidente come questa particolare realtà sociale sia una risorsa preziosa sulla quale fondare la ripresa della città. Da molti anni si è festeggia il Capodanno Cinese a Prato, ma si è trattato finora di un evento marginale, poco noto e poco partecipato. Quest’anno, invece, si è voluto celebrare in contemporanea con il Festival delle Luci, o delle Lanterne, un evento tradizionale cinese che in origine celebrava l’arrivo delle giovani ragazze in età da marito che si riunivano sotto la luce delle lanterne di carta per incontrare i futuri sposi. La manifestazione è stata un vero successo, grazie all’impegno degli enti locali e dell’associazione pratese Chi-na, nata lo scorso anno e promotrice principale. Buona parte di Via Pistoiese e di alcune vie limitrofe è stata pedonalizzata per permettere sfilate, mercatini di strada e l’esposizione di meravigliose lanterne cinesi a forma di panda, di personaggi della tradizione, di teiere, di maschere e gru, il tutto sotto una volta di lanterne rosse tradizionali. Tra le bancarelle ed i negozi aperti, una folla festosa di cittadini pratesi e cinesi si è mischiata in un clima di festa ed armonia come non si era mai visto prima. Un successo tale che si è già pensato di rendere l’evento un appuntamento fisso.